Damiano Palano
Con Civil war il regista Alex Garland ha portato nelle sale cinematografiche l’incubo che aleggia nella campagna elettorale per la Casa Bianca. Lo spettro di una nuova guerra civile riflette infatti il clima di un paese lacerato da una crescente polarizzazione politica e da divisioni con radici storiche profonde, cui la presidenza di Donald Trump e l’assalto a Capitol Hill hanno dato nuovo alimento. Come talvolta riescono a fare le narrazioni distopiche, la pellicola di Garland riesce però anche a fotografare una condizione che non riguarda solo gli Stati Uniti. Perché da circa quindici anni – a partire dalla crisi finanziaria del 2008 – molte democrazie occidentali sembrano essere entrate in un vortice.
In Europa sono state la Grecia, l’Italia e la Spagna a sperimentare per prime l’urto del «decennio populista». In seguito, la Brexit ha dato avvio nel Regno Unito a una fase di turbolenza che non ha precedenti nella storia recente del paese. In Francia, in Germania, in Spagna, in Olanda e naturalmente in Italia (ma in realtà in quasi tutti i membri dell’Ue), sono inoltre cresciuti tanto la rilevanza elettorale quanto il peso nel dibattito pubblico delle formazioni di destra radicale. E proprio la loro ascesa, talvolta davvero travolgente, conferma l’impressione che, dopo la fine dell’ondata populista degli anni Dieci, i sistemi politici occidentali non siano tornati alla “normalità”. Piuttosto sta prendendo corpo un’ambivalente “normalizzazione” della destra radicale, per la quale attori fino a pochi anni fa considerati come outsider estremi diventano protagonisti a pieno titolo del “normale” gioco democratico (insieme ai loro temi chiave).
Gli eventi degli ultimi mesi offrono una rappresentazione quasi paradigmatica del vortice da cui le democrazie occidentali sembrano essere travolte. La decisione di Emmanuel Macron di indire nuove elezioni, dopo l’esito del voto europeo, non è stata solo un azzardo sulle cui motivazioni gli storici si interrogheranno a lungo, né (soltanto) l’ennesima dimostrazione della presunzione che gli avversari rimproverano spesso al presidente francese. Lo scontro che è andato in scena – e che presumibilmente proseguirà nei prossimi mesi – è quello fra due volti della crisi contemporanea. Per un verso, gli avversari di Macron – a destra e a sinistra – hanno inalberato la classica bandiera della democrazia populista, dichiarandosi alfieri del popolo tradito dalle élite, nonostante abbiano dipinto in modo diverso il volto di quel popolo, raffigurandolo, a seconda dei casi, come la nazione francese, come il popolo “repubblicano”, o come una nuova classe subalterna. Per un altro verso, Macron ha continuato a farsi portavoce di una sorta di democrazia tecnocratica, alternativa a quella populista. Non tanto perché l’attuale inquilino dell’Eliseo non sia stato eletto dal popolo francese e non goda dunque una piena legittimazione democratica, quanto perché il prestigio e la credibilità su cui si è fondata la sua carriera politica derivano da fonti aliene rispetto al mondo dei partiti e alle sue logiche. Ben più che sul carisma, su fattori identitari o sulla rivendicazione di una tradizione politica, il progetto di Macron (certo messo duramente alla prova da anni di forti contestazioni) si è cioè retto su una retorica “tecnocratica” e “anti-politica”, sulla convinzione cioè che il possesso di competenze “tecniche” (estranee e superiori alle logiche politiche) sia il più efficace argine contro le semplificazioni demagogiche dei contemporanei “tribuni del popolo”.
Per quanto possano apparire soluzioni agli antipodi, tanto la democrazia populista, quanto la democrazia tecnocratica sono in realtà due volti del malessere che vivono oggi i nostri sistemi politici. Un malessere che si manifesta innanzitutto nella caduta della fiducia riposta nei partiti, nel crollo della partecipazione istituzionalizzata (compresa l’affluenza al voto), nella volatilità delle scelte di voto e nella tendenza alla polarizzazione. Tanto la ricetta populista quanto quella tecnocratica rappresentano infatti tentativi di colmare quel vuoto che si è venuto a creare negli ultimi trent’anni fra cittadini e partiti. Né la promessa redentiva della democrazia populista, né la soluzione tecnocratica si sono rivelate però sino ad ora capaci di ricucire quella relazione e di ricostituire stabilmente un tessuto fiduciario. Gli annunci demagogici dei populisti si sono invariabilmente scontrati con la “realtà” dei conti pubblici, dei vincoli economici e con il carattere strutturale dei processi di globalizzazione. E la retorica tecnocratica, senza dubbio più credibile nella diagnosi, è stata messa duramente alla prova dalla banale difficoltà di non poter offrire ai cittadini comuni dei buoni motivi (e, spesso, neppure dei buoni esempi) per giustificare i “sacrifici” che richiede. E la cura ha finito per aggravare la malattia cui si voleva porre rimedio.
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