L’Unità | I moschettieri della Costituzione

La Carta non va stravolta. Piuttosto va completata, come già avevano previsto i padri costituenti, con la sfiducia costruttiva e l'elezione del premier da parte del Parlamento.

Un divertente film di qualche tempo fa raccontava di D’Artagnan e i tre moschettieri ormai carichi di anni e di fatiche, costretti a tornare in servizio perché la Francia aveva nuovamente bisogno di loro, e loro non potevano sottrarsi. Qualcosa di analogo sta avvenendo da noi per la difesa della Costituzione dalla chimera del “premierato”. Un certo mumero di costituzionalisti tra i più stimati e riconosciuti del Paese, alcuni arrivati sulla soglia dei no-vanta, qualcuno di loro l’ha anche superata, sono tornati a mobilitarsi con entusiasmo giovanile per una riforma del governo che unisca le forze politiche invece di dividerle, nello spirito concorde che animò a suo tempo i costituenti. Sono i nostri “moschettieri della Costituzione”.

La destra vuole il premierato e ha la sua proposta di riforma costituzionale, la sinistra non vuole il premierato e non ha una proposta altemativa, si oppone e basta. La vulgata percepita è un po’ questa ed è divenuta parte dell’immaginario comune. Ma non è così, perché la proposta alternativa c’è ed è più praticabile e convincente di quella attualmente all’esame del Senato.

Personalità come Enzo Cheli, Andrea Manzella, Cesare Mirabelli – ecco alcuni dei nostri moschettieri – ne hanno scritto e parlato ampiamente, numerosi altri con loro, la stessa Associazione degli ex parlamentari se ne è fatta interprete a più riprese.

Proviamo allora a riassumerla di nuovo, con il (sintetico) excursus storico che essa richiede. Intanto, come chiamarla? Andrea Manzella ha coniato un’espressione, “il presidente del Governo”, che ha la sua efficacia. Nessuno si spaventi se questa storia va ripresa dall’inizio, cioè dallo Statuto Albertino del 4 marzo 1848, perché per comprendere le dinamiche costituzionali bisogna conoscerne i passaggi. Nello Statuto, che è rimasto la Costituzione italiana per un intero secolo, l’articolo 65 re-citava: “Il re nomina e revoca i suoi ministri”. Un modo un po’ troppo sbrigativo per affrontare il problema della struttura del govemo, e infatti appena 12 giorni dopo il regio decreto 16 marzo 1848, n. 66, compiva una prima integrazione costituzionale riconoscendo le figure di un consiglio dei ministri e di un presidente di questo consiglio.

Non ne erano ancora delineate le funzioni, però. Inizia a farlo il regio decreto del 26 dicembre 1850, n. 317, che introduce una divisione fra le attribuzioni dei singoli ministri e quelle del Consiglio dei ministri, organo che acquista in tal modo una sua rilevanza autonoma. È un passo avanti, ma non ancora quello decisivo, che avviene ai tempi del secondo govero Ricasoli con il regio decreto 28 marzo 1867, n. 3629, che finalmente definisce il ruolo del Presidente del Consiglio: “Mantiene l’uniformità nell’indirizzo politico e amministrativo di tutti i ministeri” (articolo 5). 

Il “decreto Ricasoli” è lo snodo fondamentale di tutta la storia che arriva ai nostri giorni. Facciamo un salto di 160 anni e leggiamo che cosa dice (ancora) oggi l’articolo 95 della Costituzione repubblicana: “Il Presidente del Consiglio dei ministri…mantiene l’unità di indirizzo politico ed amministrativo promuovendo e coordinando l’attività dei Ministri”. Come si vede, la formula è – quasi – identica a quella di oltre un secolo e mezzo fa.

Per chi vuole conoscere nella sua completezza il lungo snodarsi di questo percorso, c’è fra gli altri il saggio di Manzella Passaggi costituzionali, edito dal Mulino, con la prefazione di Giuliano Amato, ricchissimo di riferimenti di dottrina e di note bibliografiche. Qui basta ricordare che quel decreto Ricasoli venne revocato un mese dopo dal secondo governo Rattazzi, venne ripristinato nel 1876 dal govero De Pretis, venne confermato nel 1905 dal governo Zanardeli, venne mantenuto nella “legge fascistissima” di Mussolini del 1925 sul capo del governo, ed è approdato con la medesima formulazione, lo abbiamo visto, nell’articolo 95 della Costituzione del 1948.

L’articolo 95 contiene però un dato in più rispetto all’indirizzo politico e al coordinamento. È la ulteriore attribuzione al Presidente del Consiglio di una prerogativa di promozione dell’attivita dei ministri. E questo verbo, “promuovendo”, il gancio per una nuova base di legittimazione costituzionale del Presidente del Consiglio rispetto al passato, in linea con quell’ordine del giorno Perassi che accompagnò l’approvazione dell’articolo 95: “La seconda sottocommissione, udite le relazioni degli onorevoli Mortati e Conti, ritenuto che né il tipo di governo presidenziale né quello del governo direttoriale risponderebbero alle condizioni della società italiana, si pronuncia per l’adozione del sistema parlamentare, da disciplinarsi tuttavia con dispositivi idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di governo e ad evitare le degenerazioni del parlamentarismo. “Da disciplinarsi tuttavia con dispositivi idonei a tutelare” è la chiave del problema, se completare la Costituzione, come propongono i nostri moschettieri, o stravolgerne l’impianto come avverrebbe col premier eletto direttamente dai cittadini. Oggi i quattro grandi organi costituzionali, Parlamento, Presidente della Repubblica, Governo e Corte costituzionale sono parimenti ordinati fra loro. L’elezione diretta del capo del governo trasformerebbe la nostra repubblica parlamentare in repubblica presidenziale, con gli altri organi costituzionali subordinati al potere esecutivo. La Lega ha fatto vedere in questi giorni come verrebbe trattato il capo dello Stato e il suo europeismo. Anche la chiesa italiana si è sentita in dovere di mostrare le sue perplessità nspetto a questo salto nel buio.

Assicurare la governabilità completando la Costituzione, ci dicono i costituzionalisti, richiede il combinato disposto di altri fattori: l’elezione del Presidente del Consiglio, ma da parte del parlamento; munire tale investitura dei poteri di un cancellierato; potestà di destituire e cambiare ministri; previsione della sfiducia costruttiva in caso di crisi di governo; una legge elettorale a supporto di questa impostazione complessiva; il bicameralismo procedurale posto a suo tenpo da Leopoldo Elia per differenziare le competenze di Camera e Senato…

Un tale progetto potrebbe essere approvato all’unanimità: realizza gli obiettivi posti dalla destra, con le garanzie chieste dalla sinistra. Sopratutto, si andrebbe oltre una stucchevole divisione ideologica, come si riuscì a fare ottanta anni fa e tornano a proporre oggi i nostri “moschettieri della Costituzione”.

 

Fonte: L’Unità – 8 giugno 2024

[Testo qui riproposto integralmente per gentile concessione del direttore dell’Unità e dell’autore]