Ieri sul “Domani” Elly Schlein, in polemica con Renzi per l’affossamento del Ddl Zan, ha dato un colpo di pennello al ritratto di un “partito del riformismo” che appare ben lontano dal centrosinistra proposto nel 2007 a Orvieto da Pietro Scoppola e Roberto Gualtieri, da cui nacque il Pd.
Elly Schlein tratteggia il volto di un Pd che esorbita dalla storia del Pd, quella storia che segna, come sappiamo, l’incontro di culture popolari fortemente legate alla genesi stessa della Carta costituzionale, divise per decenni lungo l’asse della dialettica tra comunismo e libertà, ma sospinte a cercarsi e a ritrovarsi dopo il crollo dell’Impero sovietico. Con Schlein l’ideologia, restaurata e abbellita in chiave di giacobinismo etico, finisce per inghiottire la realtà della politica. È un teorema più o meno limpido – il suo – che corrode o svilisce la natura di un partito che non è affatto riducibile a un certo orgoglioso esclusivismo della sinistra.
Dunque, la storia evapora. Schlein non ne tiene conto, un po’ per leggerezza e un po’ per presunzione: predilige un “di più”, in nome della difesa dei diritti individuali, che diventa un “di meno” a riguardo del rispetto delle altrui convinzioni. Infatti, chi ha espresso dubbi sul Ddl Zan appartiene – questo si leggeva ieri nell’intervista sul “Domani” – al mondo oscuro dell’omofobia, copre pertanto l’avversione nei confronti della comunità lgbtqi+ e condanna l’Italia, infine, a stare oltre la “cortina di ferro” del diritto all’eguaglianza di tutti i cittadini. Su questa schematica rappresentazione è difficile concordare, essendo perlomeno poco equilibrata.
Nell’intervista campeggia inoltre un enfatico richiamo al pericolo che i franchi tiratori possano colpire ancora, a febbraio prossimo, quando i grandi elettori saranno chiamati a votare per il Presidente della Repubblica. Ebbene, da questa preoccupazione discende un monito – rivolto a chi? – affinché s’impedisca una manovra tanto deprecabile. Ora, chiudendosi nel recinto delle proprie certezze e quindi nel crogiolo delle proprie ambizioni, si scarabocchia sulla carta un percorso immaginifico alla fine del quale, in virtù probabilmente dell’essere minoranza illuminata, ci sarebbe comunque la vittoria. Non si sa perché.
Nel complesso, questa visione politica si può identificare nel rovesciamento del prodismo, malgrado l’apparente fedeltà al progetto da esso incarnato sullo sfondo del crollo della Prima Repubblicana. Il nuovo Ulivo della Schlein non è altro che la parodia del vecchio Ulivo: quest’ultimo costituiva l’assorbimento delle istanze radicali nel sistema di mediazione del riformismo, al contrario del centrosinistra che oggi, per bocca della giovane Vice presidente della Regione Emilia-Romagna, verrebbe appunto a configurarsi in termini assai diversi, ovvero come dissoluzione del riformismo in un disegno radical-progressista.
In questo modo il Pd s’avventura su un terreno ostico, francamente inadatto ad accogliere il fabbisogno di buona politica della società italiana. Anche la formula del partito a vocazione maggioritaria, incunabolo di tale aspirazione ad un’egemonia di tipo etico, s’involve nell’integralismo: chiunque non creda al “modello dei diritti”, riproposto con veemenza dalla Schlein, è fuori dal perimetro delle possibili alleanze. Chissà quale architettura di futuro governo potrebbe allora venir fuori da una pretesa di assolutizzazione di questo protocollo identitario: probabilmente nessuna o meglio, ad essere precisi, nessuna capace anche alla lontana di convincere la maggioranza degli italiani.
Ciò nondimeno, al Seminario di Orvieto del 2007 le relazioni di Pietro Scoppola e Roberto Gualtieri – idealmente degasperiano l’uno, togliattiano il secondo – misero a fuoco le esigenze e i propositi che dovevano animare il nuovo soggetto unitario dei riformisti. L’amalgama doveva consistere nell’estrazione di un pensiero democratico a sfondo popolare, senza il vincolo dì antiche pregiudiziali. A rileggere quei testi vien da pensare che più di qualcosa con l’andar del tempo è mutato, e non in bene, se ora trova ossequio nel Pd un’incongrua perifrasi del neo-radicalismo. È questo, dunque, il futuro del Pd?