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Vita e Pensiero | Attualità di Charles Péguy

La rivista dell’Università Cattolica di Milano - Vita e Pensiero - ripropone sul suo sito un articolo di particolare pregio che il teologo e vescovo Jean Daniélou scrisse nel 1965 sulla figura di Péguy.

Jean Daniélou

 

Attualità di Péguy può avere diversi significati. C’è un’attualità che si documenta nell’interesse che Péguy suscita ancora oggi: gli scritti su di lui si moltiplicano, da quelli dei suoi antichi compagni d’arme a quelli degli studiosi autorevoli che lo collocano tra i grandi scrittori della letteratura francese, e penso ai lavori di Bernard Guyon e di Jean Onimus. Ma c’è un’attualità che si manifesta anche nelle passioni suscitate da Péguy: in questo momento in Francia alcuni mettono in discussione il valore del suo pensiero politico, mentre altri sostengono che da lui possono venire illuminazioni preziose per quella costruzione di civiltà che è il nostro compito di oggi. 

 

È certo comunque che il suo pensiero corrisponde alle grandi preoccupazioni del mondo moderno e questo si fa più chiaro in questi anni del Concilio. Giovanni XXIII, come Péguy figlio del popolo, quando ha aperto il Concilio è partito da un’intuizione fondamentale che sta al cuore del pensiero di Péguy: la necessità di raggiungere, al di là dei sistemi, delle costruzioni e delle ideologie, la parte viva dell’umanità, di farsi ascoltare dai popoli, dai piccoli, dall’immensa massa umana. Péguy si è scagliato contro il mondo moderno non certo nella misura in cui il mondo moderno rappresenta la realtà della civiltà contemporanea, ma perché lo vedeva minacciato dal pericolo di farsi prendere nella rete delle ideologie e dei sistemi che impediscono di raggiungere la sostanza profonda delle cose.

 

Quando, durante la discussione conciliare sul testo dedicato al popolo di Dio, vedevo che alcuni teologi sembravano rassegnarsi a che il cristianesimo fosse una specie di élite, di pusillus grex in un’umanità che si scristianizza progressivamente nei suoi strati popolari, io sentivo che qualcosa si rivoltava in me: è stato allora che ho riaperto Péguy e ho capito.

 

Péguy ha profondamente sentito che l’unico dramma del mondo moderno era la scrìstianizzazione delle masse una perdita di contatto tra cristianesimo e popolo. «La Chiesa – dice in Notre ]eunesse – non è più, come era nel XII e nel XIV secolo, un popolo, un popolo immenso, una race chrétienne. Il cristianesimo non è più una religione-popolo, temporale, eterna. Tutte le difficoltà della Chiesa vengono di qui». Queste parole saranno il leit-motiv di ciò che dirò: esse rappresentano una risoluta protesta contro chi accetterebbe oggi che la Chiesa non sia più un immenso popolo – cioè autenticamente la Chiesa dei poveri – ma divenga un piccolo gruppo spirituale, una cappella, una casta. Questo è profondamente contrario al cristianesimo: Cristo ha voluto che il suo fosse il Vangelo dei poveri, cioè di tutti e che la sua Chiesa fosse ugualmente di tutti.

 

Nel corso di un incontro internazionale a Ginevra, tre anni fa, un teorico marxista polacco mi diceva: «Padre, noi sappiamo che ci saranno sempre individui che avranno delle crisi metafisiche e dei bisogni religiosi: non ci turba il pensiero di avere in un paese marxista qualche intellettuale cristiano, più di quanto non turbi di avere in un paese cristiano qualche intellettuale marxista. Quello che noi non vogliamo è un popolo cristiano». Queste parole mi confermarono nella persuasione che il combattimento di oggi è per un cristianesimo delle masse, per un cristianesimo di popolo.

 

Il popolo cristiano per Péguy è assolutamente necessario perché non ci può essere autenticità e vitalità se non dove il popolo è presente a garantire un contatto diretto con la concretezza: altrimenti non rimangono che degli intellettuali déracinés che sostengono delle categorie astratte, delle ideologie che sono alla fine inutili e soffocanti. Anche ai socialisti del suo tempo Péguy rimproverava di avere perduto il contatto autentico con il popolo e di essere dei «moderni»perché avevano sostituito all’autentica esperienza operaia un’ideologia marxista nata dai cervelli degli intellettuali. Perché per lui il popolo non fu mai sentito come proletariato anonimo, ma ebbe sempre un valore qualitativo, di entità capace di un contatto diretto con le cose.

 

Era il popolo da cui era uscito: e sentiva che nella sua epoca l’umanità era soggetta a un mutamento. Il popolo della sua infanzia serbava ancora una sorta di continuità con il popolo medievale, con il popolo d’Israele; ora questa continuità si incrinava. Egli ha provato fino all’angoscia l’opera distruttrice di ciò che ha chiamato il «mondo moderno». Ma con questo egli non ci appare forse come attaccato a un mondo irrimediabilmente finito? Il problema è complesso. Péguy ha avuto il senso di una certa irreversibilità del tempo; ha sentito che alcune cose non sarebbero tornate; tuttavia non ha detto che sarebbe stato impossibile vedere domani un nuovo popolo cristiano: «Noi abbiamo conosciuto un popolo – dice in Clio – che non si vedrà mai più. Non dico che la razza è perduta. Se ne vedrà un’altra». Questo testo è decisivo: il fatto che un certo tipo di popolo cristiano sia effettivamente sparito non autorizza a credere che non sia possibile un nuovo, grande popolo cristiano.

 

In realtà ciò che favorisce o ostacola la vita di un popolo cristiano non sono le circostanze che costituiscono uno stato di civiltà, di organizzazione sociologica o di sviluppo tecnico: questi sono dati che fanno parte dell’umanità d’oggi e sono strutture che possono stare all’origine di un nuovo popolo cristiano. Ciò che Péguy riteneva incompatibile con un popolo cristiano era una certa deformazione delio spirito che chiamava il «modernismo dello spirito». Il suo discorso si presenta di scottante attualità in un momento come questo in cui il Concilio sta per discutere lo schema XIII dedicato al dialogo della Chiesa con il mondo moderno. La Chiesa si apre a tutto ciò che nel mondo moderno rappresenta uno sviluppo reale dell’umanità, ma anche dice un no risoluto in tutto dò che nel mondo moderno è «modernismo», a tutte le ideologie che falsano la realtà e impediscono la potenza creatrice dell’umano.

 

Quali erano per Péguy gli elementi di corruzione contenuti dal mondo contemporaneo? In prima linea il denaro: il regno del denaro è sempre accompagnato dalla distruzione dell’anima popolare ed è all’origine della vera immoralità. In secondo luogo il pericolo di sostituire al contatto con la realtà delle costruzioni arbitrarie, delle ideologie, insomma lo «spirito di sistema». È ciò che ha insistentemente denunciato presso i cristiani e presso i socialisti: un socialismo deformato da un’ideologia marxista e un cristianesimo deformato da una teologia astratta erano con uguale intensità suoi nemici.

 

In Notre Jeunesse Péguy parla del popolo immenso, immenso perché nessuno ne è escluso, tutti possono, tutti devono appartenervi. Quando evocava con nostalgia il tempo in cui tutti erano battezzati sapeva il rischio che correva. D’altra parte la nozione di popolo non si identificava con la nozione di classe: certi oggi parlano della Chiesa dei poveri e sembrano pensare che la Chiesa debba essere di una cerca classe: nulla è più lontano dal pensiero di Péguy che è sempre stato insensibile ad ogni ideologia di lotta di classe nel senso marxista della parola. Ciò di cui aveva terrore era una Chiesa da cui qualcuno rimanesse escluso, una Chiesa forse più intensa, ma tagliata via dall’immensa massa degli uomini. Ciò significa anche che nella Chiesa si mescolano i giusti e i peccatori: la separazione non è tra i santi e i peccatori, ma tra quelli che sono cristiani, santi o peccatori, e tra quelli che sono inchrétiens. Quello che importa è essere nella comunità, essere nel popolo. Troppo spesso oggi si dice: poco importa che si sia cristiani o che non si sia cristiani, l’importante è che si sia caritatevoli e giusti e la vera Chiesa è quella dei buoni marxisti e dei buoni cristiani e dei buoni induisti e non quella che rappresenta l’insieme dei battezzati: tutto questo era quanto mai estraneo al modo di pensare di Péguy. Non si è cristiani perché si è di un certo livello morale, o intellettuale o spirituale; si è cristiani perché si è di una certa race che risale, di una certa race spirituale e carnale.

 

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Jean Daniélou

Jean Daniélou è stato un teologo e cardinale francese. È stato accademico di Francia e, con Yves Congar ed Henri de Lubac, un esponente della Nouvelle théologie.