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L’ideologia che si cela dietro al Gay Pride non fa bene alla società.

Si dice che è una festa colorata. Dietro il Gay Pride, però, c’è un’ideologia che crea problemi. Bisogna ricostruire il dialogo tra umanesimo laico e umanesimo religioso. Anche con nuove alleanze politiche.

Oggi, ai molti che guardano con prudenza alle “innovazioni” in campo etico, viene rimproverato di essere fuori dal tempo, anzi di scivolare all’indietro, nel buio di secoli bui. È un modo sbrigativo per avere ragione o meglio per imporla, senza preoccuparsi di coltivare il rispetto della corretta interlocuzione. Prevale così la violenza verbale. E questo non giova alla serietà del confronto politico perché indebolisce il tenore delle argomentazioni, perlopiù ridotte a schermaglie ideologiche. Si tratta pertanto di reagire a tutto ciò che alimenta questa spirale negativa.

Il Gay Pride, si dice, è una festa colorata: alza la bandiera dei diritti, chiede il ripudio di ogni discriminazione, esalta un concetto più alto di libertà. Perché lo si attacca, addirittura parlandone come di una pagliacciata? Ecco, fin qui non c’è da obiettare granché, salvo il fatto che questo evento così colorato, per restare all’aggettivo di moda, sconfina in un esibizionismo non sempre gradito. Il problema però non riguarda tanto le forme e nemmeno i contenuti agevolmente condivisibili, bensì il “confezionamento” di una manifestazione che vuole rappresentare un mutamento radicale degli stili di vita, dei costumi individuali e collettivi, dell’etica condivisa. Dietro la giocosità degli slogan fa capolino il disegno ideologico.

Bisogna fare chiarezza, con onestà e lealtà. Alcuni esempi sono inquietanti. Se il Gay Pride veicola l’dea della normalizzazione della maternità surrogata, volendo con ciò intendere che l’utero in affitto è sostenibile qualora il consenso della donna sia esente da coercizioni, allora c’è tutto il diritto di obiettare in virtù di principi per i quali vale la forza di una riserva di tipo antropologico. L’umanità non può soffocare nelle spire di un “diritto al desiderio” che infrange il suo limite creaturale. Oltretutto il desiderio non entra automaticamente nella sfera del codice normativo, ossia non è di per sé un diritto a cui appellarsi e conformarsi. Di questo passo il “transumanesimo” si rivela il passepartout di un “liberismo etico” che, passaggio dopo passaggio, finisce per diventare la “trappola dell’umano”. In sostanza, si arriva fatalmente a un antiumanesimo che spoglia la persona della sua identità e dignità.

Ora, di fronte a questo scenario, la politica non può assestarsi nel ruolo di ricettore passivo di qualsivoglia insorgenza libertaria. Sembra che a breve anche l’incesto si guadagni lo spazio di un’attenzione benevola, purché svincolato da una finalità procreativa. Dunque, una regola dettata dall’appagamento individuale spinge la società a sperimentare il rischio dell’anomia, lasciando in piedi una sorta di autogestione della “sregolatezza”. Fino a che punto si può dribblare l’appuntamento con una verifica seria di tali problemi? Non è azzardato ritenere che nella pubblica opinione cresca sempre più il timore per questo disconoscimento del vincolo etico.

La risposta non è compressa – certamente non deve esserlo – nel bipolarismo tra libertà e repressione, con la faziosità eretta a sistema; può esistere, invece, nella circolarità del dialogo, legando umanesimo laico e umanesimo religioso; essere cioè una risposta, in conclusione, che articoli la disponibilità a fluidificare i rapporti, senza schemi preordinati. Lungo la linea di un nuovo umanesimo potrà venire alla luce il profilo di nuove alleanze, per dare rappresentanza a una esigenza di equilibrio e mitezza in questo tempo di radicalismi che rendono impervio il paesaggio della politica.

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