Le questioni poste dai lettori con i quali dialogo oggi mi spingono a tornare sul tema della qualità e delle modalità del contributo dei cristiani all’azione politica in Italia, in Europa e nella società globale.
Contermo di essere d’avviso opposto rispetto a quello espresso dal lettore Signorini – che mi dispiace di aver dispiaciuto – quando arriva a concludere che ai cristiani «non servono alleanze», ma solo «un partito nuovo che parli ai credenti e li rimetta al centro». Alleanze servono, eccome! Servono e sono servite sempre, anche quando si sono proposti e affermati partiti di raccolta di larga parte del voto cristianamente ispirato: dal 1948 in poi, per riferirci alla nostra storia nazionale, la Dc di De Gasperi e Dossetti – e poi di Moro e Fanfani, di Andreotti e Colombo, di Marcora e Donat Cattin, di Forlani e De Mita – scelse costantemente e a ragion veduta di far proprie le regole liberaldemocratiche, di costruire alleanze con partiti di ispirazione laica e socialista e di dialogare con le opposizioni. Quel soggetto era – parola di Alcide De Gasperi – un «partito di centro che guarda a sinistra».
La Dc italiana favorì questa impostazione anche sulla scena continentale, prima nella Cee e poi nella Ue. Mai da soli, mai soltanto autoreferenziali, mai schierati appena per testimonianza, mai destra illiberale, ma invece – in diversi leader e in molti militanti – “lievito” e, appunto, “sale”. E questo anche se gran parte dell’impasto era allora garantito dalla stessa farina dc macinata in abbondanza (e niente affatto libera dalla pula…) a ogni tornata elettorale.
Non tutti i pani sfornati in quella lunga stagione politica sono stati eccellenti, ma la qualità media è stata notevole. Questo almeno sino quando la capacità di autoriforma della Dc e il senso dello Stato, cioè del bene comune e del rigore personale e di gruppo, sono rimasti saldi e il correntismo non è degenerato nel frazionismo e infine nella stagione delle compagnie di ventura politico-elettorali. Sappiamo, infatti, com’è poi andata.
Torniamo, però, all’oggi, a questo tumultuoso, affascinante e rischioso «cambiamento d’epoca», per dirla con papa Francesco. Esso ha in sé la «necessità storica» di un ritorno alla Dc? Il lettore Carlo Bernini Carri s’interroga, forse propende per il sì, ma auspica comunque, proprio come me, un impegno incisivo ed efficace dei cattolici nelle condizioni date e nella geografia politica attuale segnata da processi di evoluzione e, purtroppo, anche di involuzione sottolineati dal crescente non-voto e dal brusco sorgere e declinare delle leadership. Un impegno rinnovato e illuminato dalla Dottrina sociale della Chiesa che il profetico magistero francescano – le encicliche Laudato si’ e Fratelli tutti e l’esortazione Laudate Deum – ha rinvigorito e incarnato nel nostro tempo e nelle sue urgenze belliche, climatiche, socio-economiche ed esistenziali.
Lo scenario di tale impegno è il mondo, che ovviamente comincia in casa nostra. E qui in Italia, l’ho scritto e lo ripeto, ho la sensazione che siamo all’ultimo giro per un rinato ma non ancora rigenerato bipolarismo.
Se la crisi della politica e della stessa democrazia dovesse accentuarsi, penso anch’io che potrebbe doversi organizzare una sorta di nuova Dc. Potrebbe. Ma se mai accadrà non sarà partito soltanto “cattolico” – nel senso della casa esclusiva di «cristiani credenti (e frequentanti)», per usare un’espressione del lettore Signorini – altrimenti sarebbe piccola cosa. Anche perché lo spazio di manovra s’è fatto angusto, ingombro com’è delle macerie non più della Dc, ma delle formazioni del dopo-Dc. Altrimenti, temo che sarebbe un deposito di ambizioni, più che una “molla”, uno strumento decisivo. Di questo, invece, nel caso ci sarebbe bisogno. E per non pochi, effettivamente, già c’è bisogno.
Alla crescente domanda di visione e di buon governo e all’insoddisfazione di chi rimpiange il meglio del riformismo e della capacità di rappresentanza della Dc e dei suoi compagni di strada cercano di rispondere in modo opposto l’ambizione neocon della postmissina Giorgia Meloni e l’intenzione solidarista della dem Elly Schlein. A mio parere, due tentativi seri di dare nuova stabilità al quadro sbilenco di cui sopra.
Non ho ricevuto obiezioni per aver qualificato come «neoconservatrice» la svolta di Meloni che, dopo la subitanea presa di potere in Italia, le offre la chance di costruire anche in Europa un ruolo rilevante per sé e la sua destra che è e resta d’impronta nazional-sovranista (ed è in parte riluttante a indossare i nuovi panni, a smettere i vecchi e a rinunciare a nostalgici ammiccamenti). Mi viene invece contestata la scelta di collocare Schlein nel campo «solidarista», che storicamente è stato costruito e abitato sia da socialisti sia da cattolici democratici.
È una polemica che non capisco. Schlein sta lavorando contro correnti interne e politico-mediatiche anche violente per restituire al Pd e, probabilmente, ai Socialisti e Democratici europei un profilo riconoscibile e, appunto, solidarista: su lavoro e salario, sulla coesione sociale, nelle relazioni internazionali e nel cantiere della Ue. Negarlo non ha senso. Certo è un’impresa né semplice né scontata, che richiede grande chiarezza e lucidità nell’individuazione di priorità e opportunità e che, a mio avviso, può riuscire solo con l’inclusione e la valorizzazione delle sensibilità cristiane e civili sui temi della pace e della cura della vita in ogni fase e condizione. La tendenza di alcuni a liquidare la prima donna segretaria del Pd come una specie di ossessionata sindacalista del mondo del “dirittismo” (Igbt etc.) è un errore. Disegnare aspre caricature dell’avversario politico può sembrare conveniente, ma non serve che a rendere più radicale e fuorviante la dialettica politica. Agevolare il disegno di queste caricature è sempre autolesionista.
Chiudo con il nodo fiscale indicato dal lettore Testa, che rimanda alla questione, anche a me molto cara, dei doveri di cittadinanza. Il tema di una tassazione equa e ben proporzionata è più che mai centrale. Mi fa piacere che anche nel nostro Paese sia posto non solo da chi studia e si batte sul terreno delle piccole e grandi disuguaglianze da sanare, ma anche da un folto gruppo di “ricchi” imprenditori e imprenditrici che sostengono convintamente (da qualche anno con periodici pubblici appelli) un sistema tributario informato ai «criteri di progressività» scolpiti nell’art. 53 della Costituzione.
Penso che la realizzazione, finalmente, dell’unione fiscale europea aiuterebbe il cammino dei singoli Stati membri verso la giustizia fiscale, e perciò lontano dalle suggestioni del “tassapiattismo”, quella flat tax che non fa ricche né le persone né le imprese perché finisce per premiare chi ha già di più e svuota le casse che dovrebbero sostenere la sanità, la previdenza, l’istruzione di tutti e per tutti. Sono d’accordo con Testa sul fatto che questo banco di prova può far emergere qualità e senso di un progetto politico.
Un’ultima battuta me la concedo sul refrain ossessivo della totale irrilevanza dei cattolici oggi impegnati nelle istituzioni politiche. Faccio per controbattere soltanto un nome: Sergio Mattarella. Meno male che il Presidente c’è e, con il suo stile e la sua cultura civile e cristiana, vigila sulle regole comuni e rappresenta al meglio la Repubblica di cui siamo cittadini e cittadine.