Di questi tempi, trent’anni fa, un eterogeneo gruppo di manifestanti composto prevalentemente da gente del Pds e del Msi si riversa davanti all’Hotel Raphael, residenza romana di Bettino Craxi, per protestare contro il sistema. Per la Prima Repubblica è l’inizio della fine. Cercherò di raccontare quell’evento avvalendomi anche della testimonianza diretta (rilasciatami in una recente intervista) di Umberto Cicconi, fotografo personale e fedelissimo di Craxi, che quella sera era lì accanto al suo amico davanti ad un’incessante pioggia di monetine. Ma andiamo con ordine.
Il 29 aprile 1993 si dovevano votare in Parlamento sei autorizzazioni a procedere chieste dai magistrati contro Craxi. Ben quattro su sei furono respinte. Per molti quella era la prova che il sistema politico stava arrivando a tutto pur di autopreservarsi dall’inchiesta di Mani pulite. Gran parte della stampa reagì con fortissima indignazione contro il risultato di tale voto, prendendo nettamente posizione. I partiti di opposizione prepararono manifestazioni di protesta per il giorno seguente, in primis il Pds e il suo segretario Achille Occhetto, che organizzò una protesta proprio a piazza Navona, a due passi dalla residenza di Craxi.
La tensione stava crescendo sempre di più. Era la sera del 30 aprile quando gruppi sparsi di facinorosi si ammassarono davanti all’Hotel Raphael, aspettando che l’ex segretario del Psi uscisse. Intonavano cori da stadio e lanciavano insulti e minacce di ogni genere. Umberto Cicconi, che quel giorno si trovava là in Hotel come d’abitudine, ricorda che poco prima dell’arrivo dei manifestanti al Raphael i servizi segreti avvertirono Craxi del pericolo imminente e gli suggerirono di lasciare la sua residenza quanto prima. Il leader socialista infatti si sarebbe dovuto recare comunque di lì a poco da Giuliano Ferrara per rilasciare un’intervista al programma L’istruttoria (cfr. Radio Radicale, archivio, intervista 30/04/93).
Nel frattempo però si riversano rapidamente presso Largo Febo davanti all’Hotel sempre più persone, che agitano con le mani banconote e monetine intonando a squarciagola “Bettino vuoi pure queste, vuoi pure queste?”. Intanto Craxi dal suo appartamento al quinto piano scende nella hall al piano terra. Arrivato il momento di uscire – ricorda Cicconi – si avvicinano a Craxi degli uomini addetti alla sua sicurezza, che gli consigliano di uscire del retro, da una porta di servizio. Lui con tono offeso e adirato risponde: “Io non scappo!”. A tutti coloro che gli propongono una via di fuga alternativa egli ribatte sdegnosamente: “Qui, a casa mia, nessuno mi può impedire di uscire dalla porta principale”. Così si precipita velocemente verso l’ingresso principale per uscire fisicamente dall’Hotel e politicamente di scena.
Sono le 20,05. “La macchina è pronta?”, chiede lui. Gli rispondono affermativamente. “Bene, allora andiamo!”. Non appena esce fuori, una grandine di monetine e oggetti di ogni genere si riversa come una valanga pronta a schiacciare un uomo politico, il suo partito e l’intera Prima Repubblica. Subito gli viene aperta la porta e sale in auto. Un istante dopo anche Cicconi entra in macchina seduto rispettivamente davanti a lui e accanto al conducente. Nell’auto blindata entrano in quattro: Nicola Mansi (l’autista), Umberto Cicconi a fianco, dietro a destra Craxi e a sinistra Luca Josi. Cicconi mi racconta che la valanga di monetine e oggetti vari che gli arrivò addosso fu tale da procurargli anche una piccola ferita in testa. Dei quattro infatti lui era quello più esposto al gettito. Interessante notare anche la figura di un anonimo poliziotto a fianco a Cicconi che cercava di fare da scudo umano con il suo corpo. Una persona che non c’entrava niente con il cosiddetto establishment, ma che quel giorno stava semplicemente cercando di fare il proprio lavoro. Nell’arco di un minuto si crea il caos più totale. Giornalisti che provano a fotografare e a riprendere. Poliziotti che cercano di respingere l’onda d’urto dei manifestanti che vogliono farsi largo sempre di più sfondando il cordone di sicurezza. Manifestanti che lanciano di tutto e si fanno avanti. “Tiratori di rubli”, commenta con aria sprezzante Craxi in macchina.
L’auto blindata si fa così avanti tra i manifestanti; alcuni di essi si mettono a rincorrerla per un po’, poi vengono seminati. Poco dopo Cicconi si gira dietro e, osservando Craxi, nota come egli sia rimasto “imbalsamato, imbambolato, fermo”. Vige un silenzio di tomba lungo il tragitto. All’altezza di piazza Venezia Cicconi si volta ancora dietro e nota come Craxi sia rimasto sempre di stucco, immobile e pensieroso; gli rivolge così la parola per rompere un po’ il ghiaccio: “Ma era una scena di un film?”. Craxi volge lo sguardo verso di lui, lo fissa in modo serio e dopo un po’ gli dice: “Io questo non me lo sarei mai aspettato”. Cicconi ricorda che “in quel momento Bettino era di una serietà enorme; nessuna lacrima, ma dentro di sé piangeva dalla vergogna, glielo leggevo in faccia”.
Alle 20,18 giunsero così presso il Centro Safa Palatino a piazza Santi Giovanni e Paolo. Quella sera Craxi con tono molto pacato, dovuto probabilmente all’afflizione provata, rilasciò una lunga intervista a Giuliano Ferrara. Quest’ultimo ricorda di aver trovato Craxi “molto avvilito, molto cupo” quel giorno. Il giornalista fece ascoltare qualche intervista presa a campione tra la gente che si trovava lì a piazza Navona quella sera e poi gli chiese di commentare l’accaduto. “Dei ragazzi confesso che non riesco ad avere un sentimento diverso dall’affetto indipendentemente da quello che dicono nei miei confronti. Altri vedo che sono vecchi militanti comunisti molto ligi alla parola d’ordine del partito. Quello che parlava al microfono invece era un grande bugiardo (riferendosi all’intervento di Occhetto durante la manifestazione). Perché lui era perfettamente consapevole del funzionamento illegale del sistema di finanziamento dei partiti, del suo compreso, e non ha nessun diritto in questa materia di ergersi a giudice mio o di altri. Questa è una cosa che profondamente mi ripugna”. L’intervista prosegue e, come anche lui stesso dice più avanti, è ormai sempre più inevitabile che un’intera classe politica esca di scena per far posto al nuovo; si domanda però da chi e soprattutto da che cosa sia rappresentato il nuovo.
Sono passati ormai trent’anni da quel 30 aprile 1993 e da quell’episodio di piena sfiducia da parte dei cittadini nei confronti delle istituzioni. Episodio che a buon diritto è stato definito l’atto che ha segnato la fine della Prima Repubblica. C’è da dire che il sistema di corruzione sviluppatosi in quei decenni risultava ormai sempre più immorale e insostenibile ed è ovvio che presto o tardi i nodi sarebbero venuti al pettine. Tuttavia, secondo quanto affermato da quasi tutti gli storici e i politologi, il crollo del sistema partitico ha portato ad una crescente deriva populista che si è fatta sempre più largo in Italia e che attualmente è ancora presente sotto altre forme. Il sentimento di “sfasciare tutto”, come disse ai giornalisti una signora lì presente quella sera, era infatti diventato più forte del ricostruire qualcosa. Ebbene credo che proprio quell’espressione ben esemplifichi sia il gesto delle monetine, sia le intimidazioni, sia in generale il clima che si respirava in quei mesi. La voglia di abbattere ma soprattutto di semplificare la complessità si era rivelata, come spesso accade nella storia, più forte del costruire qualcosa che fungesse da modello alternativo a quello che si stava distruggendo. Abbattendo quei partiti che per molti anni avevano guidato l’Italia, si stava contemporaneamente demolendo anche quell’insieme di ideali, ideologie e valori caratterizzanti del sistema partitico. Da Tangentopoli in poi è come se i cittadini avessero progressivamente smesso di credere in qualcosa. E’ ovvio che la sfiducia nei confronti dei partiti non nasce solo dal clima generato da Mani pulite, ma è innegabile notare un certo stacco relativo specificatamente a quegli anni. A trent’anni da quei fatti, c’è da chiedersi se la politica italiana sia qualitativamente migliorata o peggiorata, ma questa è un’altra storia.
Vorrei concludere così con le parole che Francesco Saverio Borrelli, alla guida del pool di Mani Pulite, ha pronunciato qualche anno dopo la fine di Tangentopoli: “se fossi un uomo pubblico di qualche Paese asiatico, dove come in Giappone è costume chiedere scusa per i propri sbagli, vi chiederei scusa: scusa per il disastro seguito a Mani Pulite. Non valeva la pena di buttare all’aria il mondo precedente per cascare poi in quello attuale”.