Uno degli elementi caratterizzanti la politica tradizionale – quando non era solo fatta da partiti personali, da cartelli elettorali e dalla spettacolarizzazione spicciola – era quella di organizzare i cosiddetti “convegni settembrini”. Cioè convegni politici che, di norma, riuscivano a dettare l’agenda politica in vista della ripresa autunnale. Convegni che venivano promossi prevalentemente dalle correnti dei partiti, in primis della Democrazia Cristiana, ma anche da molti altri partiti. Tanto di maggioranza, quanto dell’opposizione. Ovviamente di quell’epoca storica.
Una prassi che è proseguita, seppur con minor forza ed incisività, anche all’inizio della seconda repubblica. Ma si trattava già di una esperienza che si avviava lentamente al suo capolinea. Con la conseguenza che la politica progressivamente si indeboliva anche e soprattutto sul versante della progettualità politica e della elaborazione culturale. È appena sufficiente ricordare uno dei tanti convegni di quella stagione, e cioè gli incontri promossi dalla sinistra sociale della Dc di Forze Nuove che faceva capo a Carlo Donat-Cattin a livello nazionale a Saint-Vincent, per rendersi conto dello spessore politico di quella fase storica.
Certo, una fase che era caratterizzata da alcuni elementi di fondo. Innanzitutto la presenza dei partiti politici organizzati e che producevano politica; in secondo luogo la centralità delle culture politiche e, in ultimo ma non per ordine di importanza, le classi dirigenti autorevoli, qualificate e riconosciute. Tre elementi che, purtroppo, oggi si sono fortemente indeboliti per la trasformazione radicale della geografia politica nel nostro paese. Perché con l’irrompere dei partiti personali e la sostanziale scomparsa della democrazia all’interno dei partiti stessi il confronto e il dibattito sono stati sacrificati sull’altare di questa maldestra modernità. E, al contempo, il tramonto delle culture politiche di riferimento hanno attenuato la personalità e la stessa specificità dei rispettivi partiti.
Da qui il trionfo del trasformismo e dell’opportunismo che erano, e restano, le derive principali della crisi della politica e della sua caduta di credibilità presso settori crescenti della pubblica opinione.
Ecco perché, e proprio partendo dalla esperienza dei tradizionali convegni settembrini, si può ancora invertire la rotta se si vuole ridare autorevolezza, prestigio e credibilità alla politica. E ciò può avvenire solo attraverso il recupero di una prassi e di una tradizione che restano decisivi ed essenziali per la stessa qualità della democrazia italiana. In discussione, infatti, non c’è il rimpianto di un passato che non ritorna più, come ovvio e scontato. Ma, al contrario, la riscoperta di un metodo, e di un merito, che non possono scomparire perché ci si deve adeguare ad un fantomatico “nuovo corso”. La politica – o meglio, la politica con la P maiuscola – del resto, si nutre esclusivamente di contenuti, di progetti, di cultura e di visione del futuro. Senza questi ingredienti fondamentali il tutto si riduce a spettacolo, a fatti legati alla pura contingenza e a scontri personali ed opportunistici. E la rilettura di quei momenti del passato, che restano di straordinaria modernità anche per l’attuale stagione politica, continua ad essere utile per capire come si può declinare concretamente la politica anche in una società post ideologica. Anche perché non possiamo rassegnarci ad una “democrazia senza partiti” o, peggio ancora, ad una “partitocrazia senza partiti”.