Abruzzo, una sconfitta che deve spingere al ripensamento del centrosinistra.

È nella Marsica l’epicentro della sconfitta del centrosinistra. Bisogna ripartire dalle realtà locali in cui l’impegno di giovani dirigenti politici ha fatto la differenza. Anche Sturzo calò il suo programma nei comuni.

L’esito del voto in Abruzzo è come una gelata di marzo per le speranze delle forze politiche di centrosinistra di mandare all’apposizione le destre insediatesi al governo del paese e di molte regioni per gli errori politici gravi delle stesse forze di centrosinistra.

Se la sconfitta è netta tuttavia è utile analizzarla anche in breve per contribuire a capire dove e perché si è sbagliato. Luci e ombre infatti si distinguono nel voto abruzzese. L’alleanza unitaria nel centrosinistra ha infatti vinto in numerosi comuni maggiori della regione: a Pescara (52%), a Teramo (53%), a Giulianova (54%), a Roseto (58%), a Vasto (51%), a Lanciano (50,1%). A Chieti, città storica della destra missina, la sconfitta è stata di misura (49,1%).

Ma allora dove ha perso in misura tale da ribaltare il risultato? La risposta è semplicissima: in tutta la Marsica, non tanto a L’Aquila città (47,3%), ma in tutti i numerosi centri della provincia, ovvero nelle aree più interne della regione. La Marsica non è più quella descritta da Ignazio Silone in Fontamara, ma l’isolamento e un certo abbandono si avvertono ovunque, ancor di più dopo il terremoto del 2009 e dopo le troppe promesse ancora in alto mare.

La Marsica, antica terra di braccianti e contadini socialisti, da tempo è come un buco nero che ha trovato il suo rifugio a destra con un voto che è insieme protesta e confusa nostalgia identitaria. D’Amico ha perduto per 43 mila voti differenza totale con Marsilio. 33 mila di questi voti sono mancati nel buco nero della Marsica.

Se il dove si è perso è chiaro, bisogna ora domandarsi perché si è perso. Ci sono alcune concause di immagine e di comunicazione: la coalizione di centrosinistra non si è mai presentata in pubblico unita, i suoi leader hanno ritenuto (o non hanno potuto?) che fosse più efficace agire come in Sardegna dove però lo spirito indipendentista è ben più radicato rispetto alle nostre regioni meridionali ancora orfane della Cassa per il Mezzogiorno. Ma ci sono ragioni più profonde e strutturali che sarà bene richiamare.

La percentuale dei votanti è ancora diminuita fino al 52%, rispetto al 53% delle precedenti regionali. Dunque vi è la metà dell’elettorato che non vota e non ha fiducia che la politica possa favorire un cambiamento e lo sviluppo sociale. Larga parte del ceto medio è scoraggiato perché non vede più prospettive di crescita, obiettivi raggiungibili per i quali valga la pena di fare sacrifici. Fra coloro che vanno a votare poi in questa fase sono forti i sentimenti di timore e incertezza per le difficoltà evidenti del Paese, dell’Europa, del quadro internazionale. In questo contesto la destra al governo appare più rassicurante.

Ora i politologi appassionati dei piccoli numeri potrebbero anche osservare come sia mancato alla coalizione di centrosinistra un più marcato apporto di forze politiche e civiche di centro democratico. Se c’è una piccola parte di verità in questa considerazione bisogna però anche convenire che la sfida politica di oggi non può ridursi alla ricerca dello 0,5 in più. Nella lotteria elettorale odierna può essere anche una tattica sufficiente per vincere qualche volta (vedi il caso Sardegna), ma non può essere questa la strategia. Altri politologi ormai sostengono che il voto è mobile, sostanzialmente è d’opinione (temporanea), e quindi legato a sentimenti superficiali e cangianti che si dovrebbero intercettare con proposte sempre più originali e stravaganti (come quello che offriva dentiere gratis, o quell’altro che voleva uscire dalla Nato).

Anche in questa visione c’è un pizzico di verità perché la società dell’immagine ha le sue leggi, ma si dovrà convenire che l’obiettivo di forze politiche democratiche non può essere il populismo di bassa lega. Il “Campo largo” dovrebbe invece significare anche visione larga e lunga. Un processo democratico di confronto serio e definizione di una coalizione coesa, con alcune idee e proposte concrete condivise, all’insegna di un pragmatismo virtuoso, ovvero del buon governo. Un processo di costruzione democratica che deve portare a vittorie larghe e rappresentative del Paese reale e non a governi basati su risicate minoranze. È certamente un compito difficile nel nostro Paese, come in quasi tutte le democrazie occidentali sfidate dai populismi e dall’astensionismo.

Da dove partire per far crescere questo indispensabile processo? È una domanda seria che dovrebbe appassionare tutti i democratici, e ancor di più quelli che ancora si riconoscono nella feconda ispirazione cristiana della politica. Anche in questo caso dall’Abruzzo ci viene un piccolo ma concreto insegnamento. Proprio nel buco nero della Marsica alcuni piccoli comuni hanno offerto una vistosa vittoria a Luciano D’Amico: Aielli con il 70%, Sante Marie con il 61%, Castelli con il 59%, Gagliano Aterno con il 56%. Piccoli comuni governati da liste civiche di centrosinistra, spesso guidate da giovani dirigenti del partito democratico. Coalizioni civiche che hanno motivato anche una maggiore partecipazione al voto (6-7 punti percentuali in più). Viene in mente subito Luigi Sturzo e il suo enorme lavoro amministrativo in tanti piccoli centri siciliani, poi diffusosi nel paese con il suo Partito popolare che aveva come obiettivo quello di radicare la democrazia e il buon governo delle comunità.

È un cammino complesso, ma forse non molto lungo. In ogni caso non se ne vede altro per fondare una proposta e una azione di governo su rocce solide e non sulle sabbie mobili. Fra qualche mese ci saranno importanti appuntamenti elettorali: il rinnovo del Parlamento europeo e il voto amministrativo per circa 3700 comuni (fra i quali 29 capoluoghi di provincia). Sarebbe un errore mortale concentrarsi solo sul primo obiettivo, mentre potrebbe mettere rosee premesse un buon esito anche nel secondo.