Non è semplice parlare di politiche industriali adeguate alle molteplici sfide attuali senza impattare nelle rigidità di narrazioni concorrenti nelle quali i protagonisti della politica globale rischiano di rimanere incastrati con reciproci danni.
Eppure, nonostante la guerra fratricida in Europa e in un Medio Oriente che in questi giorni sembra appeso al senso di responsabilità di un Paese membro dei Brics e della Sco quale è l’Iran, non si deve cessare di guardare alle politiche economiche nella speranza che il mondo superi le gravi tensioni in corso.
Uno dei requisiti di ritrovata normalità nelle relazioni economiche, dopo gli anni d’inizio secolo della prima globalizzazione all’insegna della mera massimizzazione dei profitti, è dato dall’instaurazione di filiere economiche e catene di approvvigionamento dove il rispetto dei diritti dei lavoratori, la sostenibilità sociale e ambientale insieme alle vocazioni produttive di ogni Paese e Regione vengono rafforzate da scambi commerciali equi e paritari. Stiamo, nonostante tutto, passando da un mondo diviso in Paesi produttori e Paesi trasformatori e consumatori, in un mondo dove ogni stato tende ad assumere in modo più equilibrato ognuna delle suddette funzioni e ambisce a qualificarsi sui segmenti economici in cui si sente più forte in modo complementare e reciproco con le economie delle altre regioni del mondo.
In questo senso credo si debba guardare alle relazioni economiche fra Italia e Cina (in attesa che si arrivi a parlare con Pechino più come Unione Europea che come Germania, Francia, Italia) che hanno avuto nella visita della premier Meloni nel Paese asiatico alla fine del mese scorso l’occasione per il rinnovo della ventennale partnership strategica fra i due Paesi.
Tra gli obiettivi dichiarati di questa rinnovata intesa vi è quello di ridurre lo squilibrio nella bilancia commerciale e di assicurare reciprocamente condizioni di pari opportunità agli operatori economici nel rispetto dell’autonomia, della sicurezza e della sovranità dei due Stati, a cui da parte italiana gli ultimi due governi Draghi e Meloni hanno prestato grande attenzione. In questo quadro emerge la presa d’atto – che è dettata da ragioni primariamente economiche e non geopolitiche – che nei settori in cui un’economia eccelle, conviene attivare forme di compartecipazione, piuttosto che pensare a una incerta rincorsa. Un principio seguito da decenni da grandi economie come quelle del Giappone, della Corea del Sud, ma a ben vedere anche del Regno Unito. Così, ad esempio, anche se in Italia se ne parla poco, avviene che le tecniche per la sostenibilità dei grandi scali aeroportuali, che hanno portato Fiumicino in vetta alle classifiche globali, sono riconosciute come le migliori al mondo e la Cina, anziché competere, ha attivato delle forme di collaborazione con la parte italiana per i suoi grandi aeroporti. Così ora potrebbe avvenire nell’automotive. Le macchine di nuova generazione a basso impatto ambientale e a un prezzo abbordabile per i ceti lavoratori, vedono il primato dei costruttori cinesi. L’industria europea è posta di fronte all’alternativa se venire inevitabilmente ridimensionata oppure venire ridotta al puro assemblaggio. Ecco allora il progetto che sembra farsi strada da parte del governo. Perché non collaborare con un grande costruttore cinese (si parla di Dongfeng, nome aziendale che tradotto significa Vento dell’Est) magari con una nuova società compartecipata dallo stato, attraverso cui la tecnologia cinese si incrocia con il design, la precisione e l’eccellenza della componentistica italiana per avviare la produzione in Italia di auto modernissime e a prezzi contenuti per tutta l’Ue?
Le ricadute interne di un secondo produttore di auto in Italia sono evidenti sul piano socio-economico ma anche su quello dello stimolo, derivato dalla concorrenza, con Stellantis. Le ripercussioni europee e quelle transatlantiche, se ben gestite dalla politica, potranno non essere negative. Anche perché la Germania non potrà rimanere a lungo, per una ragione di sostenibilità sociale e democratica, nell’angolo, assai imbarazzante, in cui è stata cacciata all’inizio di questi anni Venti. La mossa italiana, se ben gestita, potrà essere la molla di una nuova politica industriale finalmente comunitaria.