Avevamo una classe dirigente, è tempo d’inventarne una nuova.

Nessun processo di beatificazione. Tuttavia, anche i detrattori più incalliti della esperienza dei partiti e delle classi dirigenti della prima repubblica oggi riscoprono la valenza e la qualità di quel personale politico.

Gira e rigira il dibattito ritorna sempre lì. Ovvero, l’azione di governo, la qualità della democrazia, la credibilità dei partiti e la stessa autorevolezza delle istituzioni democratiche dipendono prevalentemente, se non quasi esclusivamente, dalla statura della classe dirigente. Perché la caduta di credibilità e di prestigio della classe dirigente politica, purtroppo, evidenzia un deficit democratico che rischia di avere pesanti ricadute negative sulle stesse istituzioni.

Ora, il capitolo della qualità della classe dirigente è un argomento vecchio ed antico che risente, inevitabilmente, delle peculiarità delle diverse fasi storiche e politiche vissute dal nostro paese. Ma, al di là di questa ovvia considerazione, è innegabile che oggi assistiamo ad una continua esaltazione della classe dirigente della intera prima repubblica e dell’inizio della cosiddetta “seconda repubblica” – cioè dopo l’uragano di tangentopoli e la criminalizzazione di una intera classe politica da parte della magistratura – e che risponde ad alcuni requisiti di fondo. Tasselli che, come ovvio, prescindono dal profilo delle singole personalità ma che, al contempo, evidenziano alcuni elementi comuni che caratterizzavano quelle classi dirigenti. Al di là dello scorrere del tempo e del profondo cambiamento culturale e storico della nostra società.

E gli elementi distintivi si possono tranquillamente riassumere con alcuni titoli. La cultura politica che ispirava la concreta azione pubblica; un forte insediamento territoriale; una concreta e tangibile rappresentanza sociale; una forte disponibilità al dialogo e al confronto; una spiccata cultura di governo; il rifiuto di una maldestra radicalizzazione del conflitto politico; una continua e perdurante elaborazione politica e culturale e, in ultimo, la politica non vissuta come una parentesi momentanea della vita ma come una sorta di “vocazione” che segnava l’intero percorso esistenziale.

Sia chiaro, nessun processo di ‘santificazione’ o di semplice ‘beatificazione’ di quella classe dirigente che ha vissuto tra oggettivi alti e bassi, ma è indubbio che proprio quella classe dirigente ha lasciato un segno profondo nella politica italiana. E questo non per una casualità o una variabile indipendente ma per la semplice ragione che quelle classi dirigenti rispondevano a requisiti precisi, percepiti e ben identificabili. Ed è perfettamente comprensibile, nonchè scontato, che anche i detrattori più incalliti della esperienza dei partiti e delle classi dirigenti della prima repubblica – in particolare da parte della cultura e dell’area della sinistra ex e post comunista – oggi riscoprano la valenza e la qualità di quel personale politico.

Del resto, se dobbiamo recuperare un aspetto del passato, pur senza alcuna regressione nostalgica, il capitolo principale resta quello della qualità e della autorevolezza della classe dirigente politica. Certo, molto dipende anche, e soprattutto, dal lento superamento dei partiti personali e dei partiti del capo dove, di fatto, non può crescere una raffinata e qualificata classe dirigente perchè l’unico criterio che conta resta quello della “fedeltà”e della subalternità nei confronti di chi guida temporaneamente quel partito.

Ecco perché quando si parla di ridare qualità ed autorevolezza alla classe dirigente politica non si intende riproporre quei modelli organizzativi ormai storicizzati ed improponibili ma, molto più semplicemente, rendersi conto che senza quei tasselli che hanno contraddistinto il ceto dirigente di un tempo difficilmente la politica contemporanea può riprendere quota e credibilità.