Democrazie mature, elettori stanchi: effetto astensione sulle europee.

Non è facile immaginare che di per sé l’appuntamento elettorale possa innescare un fenomeno di interesse e coinvolgimento. Ci vorrebbe una spinta poderosa perché si vinca la stanchezza della pubblica opinione.

Circola da tempo la teoria che le democrazie mature subiscano il declino fisiologico della rappresentanza politica, per cui i cittadini non trovano più una valida motivazione per andare a votare. A vedere l’andamento in picchiata del voto negli ultimi anni nelle elezioni nazionali dei singoli Stati membri dell’Unione Europea sembrerebbe che la teoria abbia la sua validità: siamo ad una stima del 56% dei non votanti, e con la minoranza che vota che cambia orientamento ad ogni consultazione determinando l’incertezza dei risultati.

Le prossime elezioni europee di giugno potrebbero essere condizionate da questa teoria. I 28 Stati membri incarnano democrazie mature, benché diversificate per storia, e quindi i loro elettori dovrebbero comportarsi in questa consultazione con un ampio astensionismo. Il fenomeno è noto da tempo nel complesso degli Stati fondatori dell’Unione europea nei quali votare per una rappresentanza percepita molto lontana dalle questioni più immediate, ha contributo a consolidare nei cittadini l’idea del rito elettorale come di un impegno a perdere.

Le stesse istruzioni europee hanno incentivato questa reazione mettendo in campo un eccesso di burocrazia  e trasformando lo spirito di servizio ai cittadini in tirannia delle norme e delle Istituzioni. In questa quadro le democrazie mature sembrerebbero votarsi al silenzio. Senza più proteste dirette e senza più dibattito, l’assenteismo rappresenta una condanna – ed è una condanna voluta, non casuale –  al silenzio come forma di dissenso. Spariscono i diritti generali e restano le questioni di specifici settori economici e finanziari per i quali i cittadini degli Stati si mobilitano trasversalmente; ottenuti i risultati, quali che siano, sembra quasi che i cittadini si inabissino nel silenzio della non presenza. Che è diventato uno spazio sempre più ampio ed affollato, trasversale per tutti i partiti e per tutte le identità culturali europee.

Le nostre città, allora, le dovremmo cominciare a chiamare le città dei silenzi e dei bisbigli sussurrati, tanto il dissenso si manifesta sotto traccia; un mormorio di fondo al quale per ora non si presta attenzione, ma che può salire di tono, per qualche verso annunciando il rischio di una deriva autoritaria.

Non è facile immaginare che di per sé l’appuntamento elettorale possa innescare un fenomeno di interesse e coinvolgimento, rompendo il cerchio della diffidenza o dell’indifferenza. Ci vorrebbe una spinta poderosa perché si vinca la stanchezza della pubblica opinione.

Anche la possibile riforma delle Istituzioni europee per alleggerire il peso della burocrazia lascia freddi gli elettori; i quali, senza dirlo espressamente, ambirebbero a qualcosa di più grande, forse alla costruzione di una differente realtà europea, magari una federazione alla quale conferire, seppur gradualmente, ulteriori poteri e responsabilità. Il timore, insomma, è che a giugno la teoria delle democrazie mature non verrà smentita dalle urne, sicché quelli che verranno inevitabilmente eletti da una minoranza avranno l’ingrato compito di far funzionare le Istituzioni e di pensare, al tempo stesso, alla correzione da imprimere alla loro politica, con la speranza di contenere il silenzio dei cittadini del non voto.