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Per un nuovo patto tra generazioni

Riceviamo, per mail,  e volentieri pubblichiamo l’abstract dell’editoriale di Aggiornamenti Sociali 

«Dite di amare i vostri figli più di ogni cosa, invece state rubando loro il futuro»: la frase è della ormai celeberrima Greta Thunberg. La manifestazione di protesta, ispirata dalla sedicenne svedese e svoltasi in molti Paesi il 15 marzo con la partecipazione di centinaia di migliaia di giovani, si è focalizzata sul problema dei cambiamenti climatici e sullo scarso impegno della classe politica per farvi fronte. Indirettamente, però, ci dice molto sul modo in cui il rapporto fra le generazioni si declina in questa fase storica. È questo il tema dell’editoriale di aprile di Aggiornamenti Sociali.

«Registriamo – scrive l’équipe di gesuiti e laici che compongono la Redazione – una distanza che vede contrapposte le varie generazioni: l’appartenenza generazionale diventa il punto di vista a partire dal quale valutare la situazione, individuare possibili soluzioni e definire priorità di azione, e diventa così la base di una frattura sociale». A differenza di quanto avvenuto durante il Sessantotto e negli anni della contestazione, «vi è il rischio di una sorta di indifferenza o disinteresse tra le generazioni, che si ripiegano su se stesse senza affrontare la fatica di un confronto vero».

Tensioni generazionali si registrano in vari campi, non solo in quello dell’ambiente, e toccano tutte le dimensioni della sostenibilità. È il caso del sistema formazione-lavoro-previdenza, almeno nei Paesi del Nord del mondo. «Se si considera l’attuale assetto – afferma a questo proposito l’editoriale – emerge con una certa immediatezza la contrapposizione tra gli interessi, gli obiettivi e le prospettive di quanti si stanno oggi affacciando al mercato del lavoro, di coloro che vi sono già inseriti e, infine, di chi ha concluso la propria parabola professionale e beneficia di un regime pensionistico». Un altro esempio, che tocca molto da vicino il nostro Paese, è quello del debito pubblico: «Bisogna essere consapevoli che ricorrere al debito pubblico significa prendere a prestito dal futuro collettivo. (…) L’uso che si fa delle risorse prese a prestito non può essere escluso dalle valutazioni di giustizia intergenerazionale».

Emerge dunque con chiarezza, sottolinea Aggiornamenti Sociali, che «i rapporti tra le generazioni sono innanzi tutto una questione etica», il che «non significa ridurla a un lusso per filosofi o a una preoccupazione, magari un po’ salottiera, per inguaribili buonisti. L’etica riguarda il riconoscimento che la vita di ciascuno non è possibile al di fuori di una trama di relazioni e che questo, per chi è autenticamente adulto, diventa la base per esercitare la propria responsabilità à, all’interno di un quadro segnato da fattori molto concreti. Tra questi, fondamentale per il nostro Paese è senz’altro la questione demografica».

Questi mutamenti richiedono di porre di nuovo mano al patto sociale fondativo del nostro Paese, tenendo conto delle novità. Ma chi è chiamato a prendere le decisioni che portano a un nuovo equilibrio? «Ci sembra che un primo e necessario passo sia quello di adottare la formula di “patto fra le generazioni” per sottolineare soprattutto la volontà che il fondamento della vita sociale sia frutto di un dialogo fra le diverse generazioni». È un auspicio che, nella conclusione dell’editoriale, diventa proposta concreta: «A questo compito intendiamo apportare un contributo insieme al gruppo dei soggetti promotori del Forum di Etica civile, la cui terza edizione ha per tema proprio il confronto fra le diverse generazioni e che si svolgerà a Firenze il 16-17 novembre 2019. L’intento che ci anima è di lavorare insieme, giovani e adulti, per mostrare che un dialogo concreto e costruttivo tra generazioni è possibile e può costituire un fattore fondamentale per ridare slancio e forza all’Italia».

Leggi il testo completo dell’editoriale

Eterno Bergman

Articolo già apparso sulle pagine di http://www.succedeoggi.it a firma di Mario di Calo 

Ha debuttato a Napoli nella stessa cornice del Teatro Mercadante, dopo la preview estiva del 3 e 4 luglio al Napoli Teatro Festival – all’interno del focus su Ingmar Bergman nella Sezione Internazionale – Scene da un Matrimonio dell’autore svedese con la regia del Maestro russo Andrej Konchalovsky. È la seconda volta del regista al Teatro Stabile di Napoli (l’ente che produce lo spettacolo): dopo una Bisbetica domata del 2013, ora si cimenta con un adattamento teatrale del capolavoro, quasi icona, successo internazionale dapprima televisivo e poi cinematografico. Parliamo difatti del declino e infine ascesa di quel sacro vincolo che va sotto il nome di negozio giuridico, ovvero l’unione matrimoniale fra due persone, interpretati in origine da Liv Ulman e Erland Josephson e qui riconsegnati da Federico Vanni e Julia Vysotskaya.

Questi «analfabeti dei sentimenti», come giustamente si autodefiniscono, provano a sopravvivere alla routine del loro ménage coniugale, con laceranti, sofferte stazioni vitali che raccontano, fotografandoli a dieci anni di distanza dalla loro unione, in una situazione di stasi catatonica, che molte coppie vivono dopo la passione dei primi momenti, delle prime gioie, dei primi sussulti; dei primi progetti che naufragano clamorosamente. Un figlio in arrivo potrebbe risollevare le sorti della coppia ma dopo un tragico quanto goffo gioco di rimbalzo di responsabilità e sensi di colpa verrà rispedito al mittente: il risultato solo di un falso proposito. Michele stanco – forse – di quel rapporto stantio conosce una giovane donna e scappa con lei. Da lì in poi, la separazione e gli incontri clandestini, poiché entrambi risposati, sono solo l’inevitabile trascinarsi di un amore difficile da sradicare.

Il regista russo trasporta tutta l’azione in Italia, in una Roma pariolina impersonale, neutra, negli Anni Settanta: la scena sbilenca è di Marta Crisolini Malatesta, una scatola iperrealista senza prese d’aria, solo una finestra da cui faticosamente entra un soffio d’aria (nella seconda parte dello spettacolo anche quella verrà occlusa). L’azione sembra quasi sconfinare dai perimetri della scatola teatrale come a infrangere quello schermo cinematografico proponendo in prima linea i due personaggi pressoché in braccio al pubblico, per cullarli nella loro inesperienza. I pochi a parte di ammicco sono ridotti all’osso, quasi di servizio, l’azione si concentra sul verismo che i due interpreti portano in scena e fra una sosta e l’altra, quello schermo velato riappare come lo spaccato di un’epoca ancora fresca e palpitante con delle proiezioni sulle pareti della scenografia, e il femminismo rivendicato da Malinka trova una sua corrispondenza nella cronaca della prima romana di Casa di bambola con la regia di Giorgio Strelher.

L’articolo completo si può leggere qui 

 

Roma tra degrado e orgoglio

Articolo già apparso sulle pagine di https://www.cittanuova.it

Per giorni la grande stazione ferroviaria di Roma Termini è stata sovrastata da enormi cartelloni con le immagini tristi dei personaggi della serie Suburra trasmessa da Netflix. La società televisiva, con sede in California, produce programmi ben fatti che colonizzano l’immaginario dei suoi numerosi utenti con le gesta sanguinarie di bande criminali senza freni. Emergono, in particolare, i legami di violentissime mafie straccione con poteri, più o meno occulti, e i rozzi rituali delle famiglie rom che parlano uno slang abruzzese.

Le storie alternative e positive catturano poco spazio nel mondo della finzione e della stessa informazione, che non può non occuparsi del movimentismo dei “fascisti del terzo millennio”, molto efficaci ad inserirsi dentro le grandi contraddizioni di un vasto territorio in crisi.

Tuttavia, se si vuole cercare di capire qualcosa oggi della città capitale d’Italia non bisogna andare nel sempre affascinante centro storico, popolato dai turisti, ma raggiungere la via Tiburtina, dove alla stazione della metro di Rebibbia campeggia un grande murales del fumettista Zerocalcare, con una frase in evidenza che è una vera dichiarazione d’amore: «Fettuccia di paradiso stretta fra la Tiburtina e la Nomentana. Terra di mammuth, tute acetate, corpi reclusi e cuori grandi».

Il paesaggio della campagna romana doveva essere davvero incantevole ad inizio secolo scorso, prima del disordinato sviluppo urbanistico e industriale che ha lasciato i suoi scheletri abbandonati come l’enorme fabbrica della “Leo Penicillina”, che ha rappresentato uno degli emblemi della vecchia cintura operaia della città e, negli ultimi tempi, l’estremo allucinante ricovero dei senza dimora.

Secondo la nota “teoria delle finestre rotte” è facilmente intuitivo il potere disgregativo per la società di uno stabile degradato in un determinato territorio lasciato senza cura del bello e centri di aggregazione. Eppure ciò non ha impedito ad un gruppo di abitanti di formare un comitato denominatosi “Nuova Penicillina”. Per prima cosa ha recuperato la memoria di quel luogo andando alla ricerca delle fonti storiche e dei testimoni della vita di una fabbrica all’avanguardia che ha dato lavoro a migliaia di persone. Le persone del comitato non hanno mai criminalizzato gli abitanti forzati del gigantesco rudere. Conoscono troppo bene ciò che davvero preoccupa e cioè l’azione delle mafie che mirano a prendere il controllo di alcuni negozi, periodicamente sequestrati, e la presenza ossessiva dei centri dell’azzardo sulla Tiburtina grazie alla normativa che ha incentivato il settore.

È apparso, perciò, solo uno spettacolo ad uso e consumo dei media, nel dicembre 2018, lo sgombero dello stabile della ex fabbrica Penicillina da parte di un imponente contingente di forze dell’ordine con la presenza del ministro degli Interni Salvini. Gran parte di quelli che erano costretti ad usare questa forma di alloggio disumano avevano già abbandonato il relitto. Una coppia sbandata di italiani e alcuni isolati extracomunitari sono stati portai via dalla polizia. Lo stato dell’immobile è preoccupante per la probabile presenza di eternit, come documentano le foto riportate dal comitato che chiede di fermare ogni intervento di rimozione delle macerie, già in atto, senza aver fatto opera di bonifica preventiva.

Viene da chiedersi cosa muova dal profondo questi abitanti di un territorio anonimo fino a portarli a promuovere forme di protesta con striscioni sul ciglio di una strada dal traffico veloce e impaziente. Non ci sono i potenti media presenti allo sgombero, così come gran parte degli altri residenti che forse ignorano del tutto la questione, anche se il pericolo della diffusione della polvere di amianto non è affatto una cosa da poco.

Ma ciò che davvero fa pensare è la pretesa del comitato di determinare il destino di quell’area messa all’asta dal tribunale di Roma per trovare aggiudicatari interessati a finalità imprenditoriali e commerciali. Come afferma la perizia tecnica, il grande complesso immobiliare è appetibile per la notevole cubatura consentita e per la collocazione logistica vicino al grande raccordo anulare.

I cittadini radunati nel comitato per la “Nuova Penicillina” chiedono un forte intervento pubblico per riconvertire e riqualificare l’intera area della ex fabbrica farmaceutica, per costruire almeno mille case popolari oltre a diversi spazi culturali e ricreativi, compreso un piccolo museo sulla memoria industriale di quel luogo. Una richiesta di riqualificazione e sviluppo del territorio sostenuta dal contributo di giuristi come Paolo Maddalena, già giudice della Corte costituzionale, e da un gruppo di urbanisti dell’Università La Sapienza. Come a dire che non si tratta di una proposta eccentrica, ma in linea con l’idea di poter intervenire in aree urbane abbandonate dove, come afferma il comitato, «si riversa unicamente la mano speculativa di costruttori e proprietari di slot/casinò e centri commerciali».

Si percepisce quindi, nonostante tutto e superando certe semplificazioni mediatiche, il senso di cura e appartenenza ad un luogo. Lo stesso che abbiamo visto in opera, nei giorni scorsi, con il video del giovane Simone che, non lontano dalla Tiburtina, ha rivendicato di non cedere alla mentalità dell’esclusione ma di essere aperto al mondo proprio perché rappresentante con orgoglio di un luogo ben definito come il suo quartiere di Torre Maura. Di queste storie della Roma autentica e sorprendente continueremo a parlare.

Carlo Cattaneo e lo spirito d’impresa

Articolo già apparso sulle pagine di Servire L’Italia a firma di Marco Vitale

Che questa Università sia intitolata a Carlo Cattaneo non è frutto del caso ma di una precisa raccomandazione del Comitato scientifico formato oltre che dal sottoscritto, che lo coordinò, da studiosi del calibro di Giorgio Fuà, Hyman Minsky, Camillo Bussolati, Gerardo Broggini, Sergio Noja e che si giovò della collaborazione esterna di Paolo Sylos Labini, Carlo Lacaita e del grande matematico del MIT di Boston e Accademico dei Lincei Gian-Carlo Rota. Insieme al poderoso progetto scientifico e didattico, infatti, il Comitato formulò la raccomandazione di intitolare l’Università a Carlo Cattaneo. Questa raccomandazione non si basava su aspetti comunicazionali, ma voleva esprimere, con coerenza, il contenuto del progetto che, a sua volta, interpretava la volontà dei promotori. Questi volevano fondare una Università, proveniente dal mondo imprenditoriale, che formasse i giovani a conoscere l’impresa, principale protagonista dello sviluppo economico, a capirne lo spirito ed i valori, a rispettarne le sue varie forme e dimensioni e a far crescere in sé non solo le tecniche manageriali ma la spinta all’imprenditorialità e all’innovazione. E, dunque, era obbligato il riferimento a Carlo Cattaneo, unico economista italiano (accanto ai contemporanei Giorgio Fuà e Paolo Sylos Labini) che ha capito e inserito nella riflessione economica il ruolo e lo spirito d’impresa e dei suoi principali fattori: intelligenza e volontà, che producono innovazione. Cattaneo è il nostro Schumpeter e si sarebbe certamente trovato perfettamente a suo agio nella definizione di impresa di Schumpeter: chiamiamo impresa il luogo dove si producono innovazioni e chiamiamo imprenditori coloro che le producono.

Molteplici sono i campi nei quali Cattaneo dispiegò il suo poliedrico ingegno e la sua generosa passione, ma in questa sede è importante concentrarsi su Cattaneo economista dell’impresa e dello sviluppo. Più in particolare mi riferirò ai suoi due saggi economici più sistematici e profondi: Industria e Morale (1845) e Del pensiero come principio di economia pubblica (1861). Il secondo è stato il primo scritto di Carlo Cattaneo mai tradotto in inglese (nel 2001) e distribuito nel mondo accademico americano (Lexington Books, 2003). È interessante, perché ci porta diritti al cuore del nostro tema, ricordare come si arrivò a questa traduzione ed alla prima edizione americana. Nel 1994, dopo la bufera di Tangentopoli, Milano era parecchio in ginocchio e spiritualmente depressa. Per tentare di risollevare un po’ gli spiriti vitali, come assessore all’economia del Comune, promossi una manifestazione importante: 10 Nobel per Milano. Invitammo a Milano simultaneamente 10 premi Nobel significativi di varie discipline per una serie di incontri in varie sedi con la cittadinanza. Fu una manifestazione molto ben organizzata, apprezzata dai milanesi e con effetti assai positivi sullo spirito della città. La

manifestazione fu poi replicata per altri due o tre anni consecutivi. Nella prima edizione era presente, tra i dieci Nobel, Gary S. Becker, importante e simpatico economista americano dello sviluppo, lo studioso che più di tutti aveva contribuito a rovesciare il paradigma sino ad allora dominante: il motore dello sviluppo non era il capitale (come sosteneva la teoria dominante) ma la conoscenza (knowledge). Nel corso di un dibattito pubblico io mi rivolsi a Becker con queste parole: “professore io la seguo da tempo, la stimo e condivido le sue idee; ma ci tengo che Lei sappia che, in questa città, 150 anni fa, operò un economista, che si chiamava Carlo Cattaneo, che sosteneva cose molto simili a quelle che sostiene lei, senza ricevere il premio Nobel”. Becker simpaticamente mi rispose: “well, send me a translation”. Fu così che mi misi a cercare una traduzione, e scoprii con raccapriccio che mai uno scritto di Carlo Cattaneo era stato tradotto in inglese. Allora, insieme a Carlo Lacaita, facemmo fare (al giurista e amico Avv. Ruggero Palma di Castiglione) una traduzione inglese (che riceverà, qualche anno dopo, l’apprezzamento dagli esperti di Lexington Books) e realizzammo una bella edizione bilingue con l’editore italiano Scheiwiller, nel 2001, in occasione del centenario della nascita di Carlo Cattaneo. Due anni dopo (2003), l’editore accademico americano Lexington Books, avendo visto l’edizione italiana, su segnalazione di Michael Novak, filosofo, teologo, economista americano di livello internazionale, ci propose e realizzò una altrettanto bella edizione bilingue che fu diffusa nel mondo accademico americano. Vale la pena leggere insieme l’incipit della bella prefazione con la quale Novak ha arricchito l’edizione americana:

“Max Weber’s classic paean to the Protestant ethic does not do full justice to the originality of Italian capitalism. And it is not only Weber who has failed to give Italy the accolades it deserves as the birth place of modern institutions: I mean, for example, the capitalist vitality of the cities of Northern Italy well before the advent of Calvinism; the first modern democratic constitutions (those of the Benedictines and the Dominicans); the defense of the rights of civil society, as first set forth by Albertanus of Brescia and St. Tommaso d’Aquino, etc..

In this same vein, the graceful and powerful essays on political economy by Carlo Cattaneo (1801- 1869) might long ago have taken their place as classics alongside the work of Adam Smith, David Hume, and John Stuart Mill, except for the accident of not having been (until now) translated into English.

Thanks to Marco Vitale, one of Cattaneo’s most significant essays appears here in English for the first time: “On Intelligence as a Principle of Public Economy” (1861). In lively, penetrating prose, rich in historical detail, and with a magnificent sweep across continents and cultures, Cattaneo self- consciously goes beyond Adam Smith to identify mind – that is, intelligence, and also will – as the main cause of the wealth of nations.”

Ricevetti numerosi apprezzamenti dal mondo accademico americano per questa realizzazione.

La verità è che Carlo Cattaneo era già più avanti anche di Becker e della scuola contemporanea della economia della conoscenza (knowledge economy). Infatti, il motore dello sviluppo non era, per lui, né il capitale, né il lavoro ma neppure la conoscenza. La conoscenza viene dopo come frutto dell’intelligenza e della volontà:

“Gli atti d’intelligenza che apersero ai popoli le fonti di ricchezza più vaste e universali, hanno dovuto necessariamente antecedere ad ogni produzione diretta, ad ogni ammasso scientifico. Non v’è lavoro, non v’è capitale, che non cominci con un atto d’intelligenza. Prima d’ogni lavoro, prima d’ogni capitale, quando le cose giacciono ancora non curate e ignote in seno alla natura, è l’intelligenza che comincia l’opera e imprime ad essa per la prima volta il carattere di ricchezza, il valore che hanno le cose non si rivela da sé, è il senno dell’uomo che le discopre… Ecco, nell’infanzia delle genti atteggiarsi le quattro forze produttive: intelligenza, natura, lavoro e capitale, in una serie che sempre e ad ogni volta viene aperta dall’intelligenza… Interamente nelle regioni del pensiero si preparano quindi i destini che danno e tolgono all’improvviso ai popoli e alle classi il possesso della terra e degli altri beni… Chiuso il circolo delle idee resta chiuso il circolo delle ricchezze… L’uomo interiore possiede due forze: l’intelligenza e la volontà. La volontà è principio di ricchezza quanto l’intelligenza”.

Questa serrata progressione di pensiero testimonia la straordinaria modernità di Cattaneo come pensatore economico. Egli sostiene le sue conclusioni con una ricca serie di esempi storici e geografici che testimoniano le forti radici e la straordinaria modernità del suo pensiero. E noi potremmo arricchire i suoi esempi con molti altri tratti dal nostro tempo. Pensiamo al Venezuela che riceve dalla natura il dono di una grande ricchezza petrolifera che sperpera nel modo che abbiamo sotto gli occhi, infliggendo al suo popolo miserie e sofferenze inaudite. Pensiamo all’Italia che all’inizio degli anni ‘60 grazie all’Olivetti, ad alcuni centri della marina militare, all’Università di Pisa e al Politecnico di Milano, è all’avanguardia nell’elettronica, con Ippolito è all’avanguardia nel nucleare, con Mattei sta conquistando una relativa autonomia nella politica energetica dall’oppressivo monopolio delle sette sorelle petrolifere e nel giro di pochi anni perde tutto e viene implacabilmente relegata in Cat. B, dalla quale, pur tra alti e bassi, non si è più realmente ripresa: chiuso il circolo delle idee resta chiuso il circolo delle ricchezze.

Ma forse l’esempio più convincente della correttezza del pensiero di Cattaneo resta quella della Scozia del ‘700. Arthur Herman, l’autore di “How the Scots invented the Modern World (New York, Three Rivers Press 2011) scrive: “Nel Settecento la Scozia era la più povera nazione indipendente d’Europa. Eppure questo paese culturalmente arretrato riuscì a diventare la ruota motrice del progresso europeo”. Nessuno all’inizio del settecento poteva minimamente prevedere che la Scozia del ‘700 avrebbe dato i natali ad Adam Smith (fondatore della teoria economica moderna), a Adam Ferguson (fondatore della sociologia) e James Hutton (fondatore della geologia), a scrittori vigorosi come Walter Scott, a filosofi come David Hume, a fisici come James Maxwell, a inventori come Graham Bell (insieme a Meucci, inventore del telefono) e James Watt (inventore della macchina a vapore) a Matthew Boulton (un imprenditore che con una serie di innovazioni rese più efficiente e diffondibile la macchina di Watt), a James Young (inventore del metodo di raffinazione del petrolio) e altri.

L’unica cosa certa per gli storici che hanno studialo lo straordinario fenomeno è che una grande influenza fu esercitata sulla Scozia da un importante sacerdote-politico che, sostenendo che tutti i cittadini dovevano poter leggere la Bibbia, riuscì ad imporre un intenso programma di alfabetizzazione che portò la Scozia a raggiungere a metà del ‘700 un livello di alfabetizzazione diffusa enormemente superiore a quella dell’Inghilterra.

Mi sono soffermato su questa straordinaria vicenda per sottolineare due fatti. Il primo è la difficoltà di fare previsioni a lungo termine in materia economico-sociale perché c’è sempre, fortunatamente, un cigno nero o bianco che sia che, nel male o nel bene, spariglia le carte e rende la vita delle persone e dei popoli imprevedibile. Non per niente Goethe per indicare il flusso della storia parla “dell’arcano laboratorio di Dio”. Il secondo è l’importanza dell’istruzione e dell’intelligenza come fattori primi dello sviluppo, importanza che non è certo una scoperta del nostro tempo. Tutta la scuola italiana del pensiero dello sviluppo e dell’economia civile (dall’illuminismo napoletano a quello lombardo) è pervasa da questo tema sino al vertice rappresentato, a mio giudizio, dal saggio di Carlo Cattaneo sul quale stiamo riflettendo, che è uno dei saggi più potenti mai scritti sulle rare radici dello sviluppo.

E ciò mi porta alla seconda riflessione che voglio fare. C’è chi pensa che lo sviluppo economico inizi solo con l’industrializzazione. E allora Firenze, Siena, Venezia, Genova, i grandi commerci, i grandi imprenditori come il pratese Francesco Datini che, fattosi dal nulla, lasciò ad un istituto di beneficenza un’eredità di 600.000 fiorini d’oro pari a Kg. 247 di oro fino a 18 carati e gli esemplari istituti di assistenza sociale come lo Spedale degli Innocenti di Firenze progettato dal Brunelleschi e finanziato sempre dal Datini, tutto questo e tanto altro da dove viene, cosa rappresenta? Naturalmente gli storici veri la pensano in modo diverso, come Braudel, che di Genova scrisse: “se mai esiste una città diabolicamente capitalista prima dell’età capitalista europea e mondiale è proprio Genova, opulenta e sordida nello stesso tempo” e ricorda che le galere genovesi istituirono un servizio regolare di linea tra Genova e Bruges nel 1295 e ci parla dei grandi scambi tra Genova e Istanbul, la New York del XVI secolo, con 700.000 abitanti (contro i 300.000 di Parigi, i 200.000 di Napoli, i 100.000 di Londra).

Dobbiamo rifondare molte cose. E nel fare ciò dobbiamo ritrovare, anche nella nostra storia, le radici vere dell’impresa del terzo millennio. Dobbiamo liberarci dai pestilenziali modelli del capitalismo finanziario e selvaggio di matrice anglosassone, culturalmente e moralmente devastanti, che abbiamo rifilato a molte generazioni per quasi cinquant’anni. E riprendere, invece, i modelli dell’impresa toscana, lombarda, genovese, veneziana, quando l’imprenditore italiano era ai vertici mondiali ed insieme creava modelli di città, di benessere serio, di convivenza civile. Andiamo a Siena a riflettere come i grandi lanaioli e mercanti senesi abbiano, al contempo, creato grande ricchezza ed una grande cattedrale, un grande palazzo del popolo, una grande banca, che proprio nei giorni nostri hanno tentato di distruggere, un grande ospedale, Santa Maria della Scala, organizzazione esemplare per tutta Europa. Siena è la testimonianza viva che non esiste conflitto tra buona economia imprenditoriale e umanesimo civile, in uno sforzo continuo per tenere insieme economia, finanza, buon governo, arti, spiritualità, istituzioni sociali. Andiamo a riflettere sugli affreschi di natura civile sul Buongoverno di Ambrogio Lorenzetti nel Palazzo del Popolo e sugli affreschi di assistenza sociale del grande ospedale (grande impresa) di Santa Maria della Scala. Il progetto “Welfare” non nasce nell’‘800 o nel ‘900 ma nasce lì, quando istituzioni produttive (imprese), opere di assistenza sociale, cultura, amministrazioni pubbliche, si saldano in un patto di buongoverno che dona frutti meravigliosi, dei quali ancora oggi beneficiamo. La responsabilità prima degli imprenditori e delle scuole d’impresa è, oggi, quella di collaborare all’uscita da una concezione economica fine a sé stessa, che si è cacciata in un vicolo cieco senza speranza, per ricostruire un nuovo modello di sviluppo economico, sociale culturale, riaprendo ed aggiornando tanti esempi, stimoli, insegnamenti dei quali la nostra storia è così ricca, ricollegandosi anche al Rinascimento, in un approccio colto ed eclettico del quale Cattaneo è uno dei grandi testimoni.

Dunque intelligenza e volontà, prima dei beni materiali, del capitale, del lavoro ma anche prima della conoscenza. Trovo una rappresentazione grafica della progressione cattaneana in un grafico del Ing. Perotto (allora capo della ricerca Olivetti e progettista del Modello 101, il primo computer da tavolo del mondo) che riferendosi alla società contemporanea evidenzia tre stadi di sviluppo: società dell’informazione, società della conoscenza, società dell’intelligenza. Il passaggio dalla società della conoscenza alla società dell’intelligenza è caratterizzato dall’uso che si fa della conoscenza. Intelligenza e volontà, dunque, come fattori principali di sviluppo. E cosa sono questi fattori se non l’essenza dell’impresa e dello spirito d’impresa, anche se Cattaneo non usa questa terminologia, ma parla di industria? Ma la usa questa terminologia un filosofo e teologo domenicano contemporaneo (che ho ragione di ritenere non conosca Cattaneo) che, in un saggio sulla Spiritualità d’Impresa, scrive:

“Le due facoltà dello spirito: intelligenza e volontà. Nella tradizione filosofica lo spirito ha due facoltà: l’intelligenza e la volontà… Intelligenza e volontà, per quanto siano facoltà ben distinte dello spirito umano, sono strettamente complementari. L’intelligenza conosce la singola cosa, la mette in relazione con le mie conoscenze precedenti e, soprattutto, con il mio mondo di idee. La volontà apprezza, valuta la cosa conosciuta come cattiva o come buona, se la apprezza come buona allora inizia a desiderarla e amarla. A questo punto, perché il desiderio e l’amore non siano vani e platonici, l’intelligenza comanda il raggiungimento di quel bene apprezzato, cioè la sua realizzazione. E infine, la volontà si mette all’opera”. (Padre Giorgio Carbone, Spiritualità nell’impresa. Piccola Biblioteca Inaz, 2011).

Ed è proprio qui, in questo incontro tra intelligenza e volontà, che pone le sue redini lo spirito d’impresa.

Queste coincidenze attraverso tempi e discipline diverse sono significative ma non certo sorprendenti. Anzi sono la conferma che il metodo cattaneano della interdisciplinità è l’unico metodo che permette di capire qualcosa di ciò che avviene nella società, proprio perché la vita e la società sono, per loro natura, interdisciplinari.

Chi ha meditato profondamente su “Del pensiero come principio d’economia pubblica” di Cattaneo, non può aver dubbi sul fatto che egli si ponga, ancora oggi, molto più avanti di tanti che rivendicano infondate primogeniture sulla scoperta del valore della conoscenza come fattore di sviluppo, e molto più avanti anche del famoso Punto Quattro di Truman (1949). Quando egli parla di “intelligenza e volontà” come fattori centrali dello sviluppo, non si riferisce, infatti, alla formazione ed all’istruzione (attività alle quali peraltro credeva fortemente tanto da dedicare alle stesse il meglio di sé); non si riferisce neanche agli “ammassi scientifici” del Gioia cioè alla conoscenza accumulata. Egli si riferisce a qualcosa che viene prima, a qualcosa che inizia il processo di emancipazione e di accumulo della conoscenza. All’intelligenza in sé, all’intelligenza non ancora istruita, unita alla volontà di trovare la propria strada, di essere artefici del proprio sviluppo, di operare sulle proprie risorse reali, ad un’attitudine morale e politica. Ecco perché la sua visione è strettamente legata al tema della libertà e soprattutto della libertà di intraprendere e della volontà collettiva e individuale di sviluppo, cioè di quello che oggi chiamiamo lo spirito d’impresa.

La riprova della fondatezza dell’analisi del Cattaneo e l’avanzamento e l’approfondimento delle sue idee sullo sviluppo, non li troviamo nei manuali di economia che, per la maggior parte, ripetono formule stanche di una dottrina morente, ma nella storia viva degli anni ‘80 e ‘90, quando, rottisi gli schemi collettivisti ed oppressivi, si liberano energie umane e la libertà d’impresa occupa sfere crescenti nel mondo, e l’intelligenza e la volontà di tanti uomini, sotto ogni latitudine e longitudine, avviano allo sviluppo zone immense del mondo, che negli anni ‘60 e ‘70 venivano da tutti gli esperti condannate ad un eterno sottosviluppo “per mancanza di capitale”. Le visioni di Cattaneo le troveremo nelle grandi inchieste di Guy Sorman (“La nouvelle richesse des nations”, Fayard 1987; “Le capital, suite et fins”, Fayard 1994), o in certi libri di storia e teoria d’impresa (come quelli di Drucker e di Gilder). E, con sorpresa di molti, le ritroveremo in alcune Encicliche della Dottrina Sociale della Chiesa. In parte già nella parte II della Mater et Magistra (“Anzitutto va affermato che il mondo economico è creazione dell’iniziativa personale”), ma soprattutto nella “Centesimus Annus”.

Parecchi grandi temi di Cattaneo si sviluppano come derivati della sua tesi di fondo, come: la visione dinamica dell’economia, il ruolo fondamentale della libertà e della concorrenza, l’unitarietà dell’economia, la globalizzazione dell’economia, i rapporti tra economia, industria e ambiente. Sono temi che tratto nella mia postfazione al testo di “Intelligence as a principle of public economy”, ai quali rimando per non appesantire troppo la presente relazione. Solo un altro punto centrale devo qui citare avviandomi alla conclusione: il rapporto tra Industria e Morale.

Il positivismo di Cattaneo e degli studiosi dei quali è erede e tutt’altro che cieco, tutt’altro che ingenuo, tutt’altro che vittima dell’illusione “sulle magnifiche sorti e progressive”. È un positivismo realista, di chi conosce a fondo gli alti e bassi delle vicende umane, di chi conosce la lentezza, la gradualità, la fatica dell’incivilimento, di chi ha sofferto disillusioni generali e personali, di chi sa che solo i processi di sviluppo che nascono dal basso, dalla maturazione collettiva, dalla valorizzazione dei propri talenti, dalla dura fatica intellettuale, materiale e morale, hanno possibilità di consolidamento, di chi, come Cattaneo, ha letto ed interiorizzato il Vico. Ma le difficoltà, le sconfitte, non uccidono la speranza, che non è mai ottuso ottimismo ma è impegno morale. Dai fatti ai pensieri e dai pensieri ai fatti. Per migliorarli, per contribuire, senza che le cadute e le contraddizioni spengano la speranza e l’impegno. Questa è la morale dell’industria e del lavoro, come Cattaneo la illustra in una sua altra splendida pagina, intitolata, appunto: “Industria e morale” (Relazione tenuta come relatore alla Società d’Incoraggiamento d’Arti e Mestieri, Milano, 1845, in “Scritti economici”, ed. Le Monnier, 1956, Volume III): “Dacché il destino dell’uomo fu quello di vivere coi sudori della fronte, ogni regione civile si distingue dalle selvagge in questo, ch’ella è un immenso deposito di fatiche… Quella terra (Nota: si riferiva al territorio fra Milano, Lodi, Pavia) adunque, per nove decimi, non è opera della natura; è opera delle nostre mani; è una patria artificiale… Sì, un popolo deve edificare i suoi campi, come le sue città… Quindi è necessità, necessità morale, che ogni generazione inalzi i suoi templi e i suoi archi e modelli le sue sculture, e apra nuove vie per alpi e per lagune, e inarchi nuovi ponti non solo ormai sui fiumi, ma sui laghi, ma sui mari e non solo sopra lo specchio delle acque, ma fin per disotto ai tetri loro gorghi”.

Dunque l’innovazione come elemento costitutivo dell’industria e dell’impresa, l’innovazione non come un accidente o una cosa eventuale ma come essenza e dovere dell’impresa. Dovere morale.

È qui che intelligenza e volontà, fattori costitutivi ed essenziali dello spirito d’impresa, si saldano con l’innovazione fattore essenziale dello sviluppo o, come dicevano meglio gli studiosi della scuola italiana, dell’incivilimento.

Possiamo dunque concludere con una riflessione sulle parole con le quali Cattaneo chiude il suo poderoso saggio:

“Raccogliendo, diremo che ogni nuovo trattato d’economia pubblica, dovrebbe formalmente classificare tra le fonti della ricchezza delle nazioni l’intelligenza e la volontà: l’intelligenza che scopre i beni, che inventa i metodi e gli strumenti, che guida le nazioni sulle vie della cultura e del progresso; la volontà che determina l’azione e affronta gli ostacoli”.

Se i legislatori non possono con un colpo di verga magica creare in ogni paese i beni che la natura ha troppo inegualmente sparsi sulla terra, se non possono moltiplicare a piacimento il numero delle braccia e la potenza del lavoro, se non possono sempre cattivarsi il favore degli arbitri del capitale, certamente possono farsi promotori e vindici della libera intelligenza e della libera volontà.

Aggiunga ogni scrittore a queste nostre una nuova pagina, s’inoltri d’un passo nell’analisi da noi tentata; e una meno imperfetta sintesi della pubblica economia potrà risponder meglio al voto delle nazioni”.

Il suo auspicio, la sua raccomandazione non è stata raccolta. Si sono volute percorrere altre vie, quelle del collettivismo e dello statalismo da un lato, quelle dell’economicismo astratto e del liberalismo e dell’individualismo selvaggio e della finanziarizzazione dell’economia dall’altro. Ma oggi il suo metodo, i suoi valori, la sua visione, che rappresentano un punto alto di un’intera tradizione di pensiero italiana, riaffiorano con grande vigore. La faticosa e dolorosa successione degli eventi del ventesimo secolo e dei nostri anni, la riprova dei fatti (alla quale egli ed i suoi predecessori giustamente assegnavano un ruolo decisivo), dimostrano che quei metodi, quei valori, quella visione erano profondamente corretti e sono profondamente attuali. Se la vittoria o la sconfitta di un pensatore e di un educatore non si misurano sul metro del successo mondano ma sulla capacità delle sue idee di durare e rafforzarsi con il trascorrere del tempo, è giunto il momento di parlare di Carlo Cattaneo vincitore.

Per questo ho dato alla mia relazione un sottotitolo che è un vero e proprio appello:

“RICOMINCIAMO DA CARLO CATTANEO”.

Basta Spot

Assistiamo preoccupati al fatto che l’attuale dirigenza politica ai vari livelli, abbia molte difficoltà a delineare un efficiente sistema di governo per le esigenze dell’attuale società. Le cause si possono facilmente individuare analizzando i modi prevalenti utilizzati dai leader attualmente al comando del vapore.

Per essere sinceri, il malanno non è affar di questi recenti tempi, perché proviene da lontano. Se prendiamo in esame le manovre del governo giallo-verde e le relazioniamo con le forme utilizzate dai leader per illustrarle, noteremmo già in tutto ciò qualcosa che proprio non funziona. O meglio, funziona ma per obiettivi piuttosto superficiali.

Sia Salvini che Di Maio lanciano messaggi in sintonia con i modi classici di proporre la pubblicità televisiva. Sono rapidi, semplici, immediati. Sembrano, per l’appunto, studiati per togliere l’ingombro della complessità. Complessità che, comunque sia, regge le sorti dell’intero impianto della cosa pubblica, della cultura e della società genere. Questo schema non è nemmeno sfasato rispetto alle proposte governative. In effetti, tanto il reddito di cittadinanza, quanto la flat tax, per non parlare della quota 100, sono tutte misure difficilmente incastonabili della struttura complessa della società. Sembrano, di fatto, dei fulmini a ciel sereno. Gettati uno dopo l’altro, senza tener conto minimamente delle ripercussioni che gli stessi hanno nel tessuto reale del Paese.

Lo schema, quindi, è molto preciso: semplificazione estrema sia nel linguaggio che nei fatti. Modello di riferimento è lo spot pubblicitario: quindici secondi dove lanciare il prodotto senza alcun ingombro e pesantezza del mondo reale.

Quindi, sia Salvini che Di Maio sono il frutto di un sistema di comunicazione, ma anche del fare e dell’operare, retto dall’astrattezza e dalla capacità di massima seduzione del fruitore del messaggio stesso. La sfortuna, per costoro, è che, a conti fatti, la cosa poi non funziona: non si cancella la complessità in questo modo. Anzi, la complessità ha sempre l’ultima parola e ciò che intendeva oscurarla viene alla fine deriso e soffocato.

Vedasi i provvedimenti legislativi assunti cha fatica fanno nell’attuarsi e nel dispiegare i vantaggi che così lautamente i proponenti proclamavano. Questo malanno era già stato largamente utilizzato anche da Matteo Renzi, ma non si può scordare che la fonte principale, il maestro dei maestri, è stato sicuramente Silvio Berlusconi.

Oggi, queste figure ormai sembrano impallidite rispetto alla fonte iniziale, ma non per questo limitano i guai che quel sistema provoca nei costumi, nella economia, nella cultura e soprattutto nella politica.

È in atto una fragilità preoccupante, adesso io non voglio richiamare alla memoria la saggezza di un Aldo Moro, Enrico Berlinguer e Giulio Andreotti i quali avevano il grande merito di cogliere la complessità, dispiegarla e di cercarne le fattibili modifiche. Però, quel modello che oggi potrebbe sembrare noioso, avrebbe il gran merito di non spendere velocemente le idee, di non consumare immediatamente i progetti, ma di costruire delle serie architravi del costume politico.

È questo che a noi manca. Troppa fretta. Troppe accelerazioni e improvvisazioni. Incapacità di governare i processi a lungo spettro e in questo modo, purtroppo, il Paese espone la sua pur profonda e antica cultura, a un impietoso sbriciolamento quotidiano.

Il mio è un grido di allarme, non possiamo ogni giorno essere in ansia per le cose che sentiamo e per le cose che non vengono fatte.

È un richiamo ed un appello a non dare più ascolto a certi fenomeni che ci destinano, inevitabilmente, a una sciagurata caduta di stile e di sostanza.

Venezuela i Gesuiti ricercano alternative politiche alla crisi

L’Università Cattolica Andrés Bello (Ucab) di Caracas, gestita dai gesuiti, guarda alla ricostruzione che verrà e fa attraverso una pubblicazione e dei seminari di approfondimento.

La pubblicazione, diffusa gratuitamente si intitola “Ricerca di alternative politiche alla crisi del Venezuela” e offre gli atti del convegno sul futuro del Venezuela promosso in marzo a Lima dai gesuiti latinoamericani (Cpal), con importanti e qualificati contributi.

Intanto l’altro ieri per presentare in Piano per il Paese sulla sicurezza è stato promosso un incontro a cui ha preso parte anche il presidente autoproclamato Juan Guaidó, il quale si è anche intrattenuto con alcuni studenti.

Sparkle torna a investire: al via BlueMed, il primo cavo sottomarino che collegherà Palermo con Genova fino a Milano

Sparkle, primo operatore di servizi wholesale internazionali in Italia e tra i primi dieci nel mondo, annuncia un investimento di lungo termine per la realizzazione di BlueMed, cavo sottomarino multifibra che collegherà Palermo con Genova fino a Milano.

Il nuovo cavo, la cui operatività è prevista per il 2020, attraverserà il Mar Tirreno collegando il Sicily Hub di Sparkle a Palermo – data center neutrale e connesso con diciotto cavi internazionali – con la nuova stazione di atterraggio neutrale di Genova, direttamente collegata al ricco ecosistema digitale di Milano. BlueMed includerà anche diverse ramificazioni nel Mar Tirreno ed è progettata per supportare ulteriori estensioni a sud della Sicilia.

Con una capacità fino a 240 Tbps e lungo circa 1.000 km, BlueMed fornirà connettività avanzata tra Medio Oriente, Africa, Asia e gli hub continentali europei con una latenza ridotta del 50% rispetto ai cavi terrestri che collegano la Sicilia con Milano.

Inoltre, la nuova stazione di atterraggio di Genova si propone di diventare via preferenziale per i futuri cavi sottomarini alla ricerca di un accesso diversificato sulla costa europea occidentale, rafforzando il ruolo dell’Italia come gateway digitale tra Africa, Medio Oriente, Asia ed Europa.

Mario Di Mauro, Amministratore Delegato di Sparkle, commenta: “L’investimento per la realizzazione di BlueMed e della stazione di atterraggio a Genova rappresenta la prima fase di un piano più ampio volto a consolidare la leadership di Sparkle nel bacino del Mediterraneo attraverso l’estensione e il rafforzamento del suo backbone regionale”.

In Toscana la sicurezza conta su “mille occhi” nelle città

Dopo Montecatini anche altri quattordici Comuni della provincia pistoiese accenderanno le telecamere in diversi punti delle aree urbane. L’obiettivo è rendere più efficaci sia il controllo del territorio che la prevenzione, migliorando i sistemi di segnalazione di fatti o attività ritenute sospette da parte degli istituti di vigilanza che operano sul territorio, per un totale di 179 guardie giurate coinvolte nel progetto. I Comuni interessati sono Agliana, Buggiano, Chiesina Uzzanese, Lamporecchio, Larciano, Massa e Cozzile, Monsummano Terme, Montale, Pescia, Pieve a Nievole, Ponte Buggianese, Quarrata, Serravalle Pistoiese e Uzzano.

I primi cittadini hanno sottoscritto ieri in prefettura il protocollo insieme al prefetto Emilia Zarrilli e ai responsabili degli istituti di vigilanza coinvolti, presenti anche il questore, i comandanti provinciali di Carabinieri e Guardia di Finanza e il comandante della sezione Polizia stradale di Pistoia. Le procedure operative standardizzate e la strumentazione tecnologica adeguata renderanno più tempestivo, e quindi più efficace, il sistema di vigilanza, soprattutto rispetto a situazioni potenzialmente a rischio che richiedono un pronto intervento, come movimenti o presenze sospette, di persone o veicoli, spaccio e consumo di stupefacenti. Sono previste dal protocollo anche diverse attività di formazione a cura delle Forze dell’ordine dedicate alle guardie giurate coinvolte nell’iniziativa.

 

Museo Etnologico Vaticano: Indonesia. Il Paese dell’Armonia

Dimostrare attraverso l’arte che popoli con culture, etnie e religioni diverse possono convivere in armonia. È questo il messaggio di fondo dell’esposizione temporanea sull’Indonesia. Il Paese dell’Armonia,  al Museo Etnologico Vaticano.

Oltre 200 i manufatti in mostra che si aggiungono alla ricca Collezione indonesiana dei Musei Vaticani, costituita da oltre mille oggetti che vanno dall’VIII al XIX secolo: dalle raffinate statue in bronzo rappresentanti divinità indù e buddhiste alle marionette di Giava per il teatro delle ombre wayang, da un Corano in miniatura a un Crocifisso decorato con  motivi tipici degli Asmat, gruppo nativo della Papua.
Molte delle opere esposte sono doni che le comunità indonesiane hanno fatto negli anni ai vari pontefici.
L’iniziativa è promossa in collaborazione con il Governo indonesiano e l’Ambasciata indonesiana presso la Santa Sede.

L’Indonesia è un paese costituito da migliaia di isole in cui convivono numerose etnie, ciascuna ricca di una propria vivace tradizione culturale. Questo crogiolo culturale ha favorito l’incontro di differenti religioni, e oggi la popolazione indonesiana è orgogliosa di presentarsi al mondo come un esempio di tolleranza e convivenza fra le diverse culture e religioni.
Le religioni autoctone sono praticate ancora oggi in molte parti dell’Indonesia, rafforzando nei vari gruppi, fieri delle proprie tradizioni ancestrali, il senso di appartenenza e di identità culturale. L’incontro delle diverse tradizioni religiose locali con quelle che nel corso dei secoli si andarono successivamente diffondendo in Indonesia diede vita a peculiari espressioni culturali e artistiche.

La raccolta indonesiana del Museo Etnologico Vaticano è costituita da oltre mille oggetti, rappresentativi delle popolazioni, culture e religioni di quella vasta area geografica. La selezione di manufatti qui esposti permette di apprezzare e conoscere il ricco patrimonio artistico indonesiano, dagli oggetti più antichi a quelli contemporanei.

La collezione più antica, donata da Mons. Eugène Tisserant (1884-1972), è costituita da 40 raffinate statue in bronzo, databili dall’VIII al XIV secolo, rappresentanti divinità indù e buddhiste. Da Giava proviene la raccolta più ricca e completa, in cui spiccano un gruppo di 30 marionette per il teatro delle ombre wayange un paravento a tre pannelli. Il mondo islamico è rappresentato da uno straordinario Corano in miniatura, databile alla fine del XIX secolo, con caratteri talmente piccoli da richiedere una lente d’ingrandimento per la lettura.

Il cristianesimo è presente con molte opere realizzate nei peculiari stili indonesiani: di particolare interesse è un crocifisso decorato da motivi tipici degli Asmat, gruppo nativo della Papua. Le culture originarie dell’Indonesia sono documentate anche da numerosi oggetti che ben illustrano le loro antiche tradizioni: da Kalimantan provengono oltre 300 oggetti, mentre da Sumatra e dall’ isola di Nias sono giunti 50 manufatti, tra i quali spiccano statue raffiguranti antenati. Non bisogna dimenticare inoltre le testimonianze delle altre numerose etnie presenti in Museo come gli Aceh, i Batak, i Bugis, i Makassar, i Toraja e i creatori delle stoffe e degli splendidi scudi dai magici disegni, i Kenyah.
Da Bali, infine un’elegante raffigurazione pittorica su foglie di palma, lontar, narrante una popolare storia d’amore e una statua di Singa, il leggendario drago-leone.

Cresce il numero di tumori in Sicilia

In Sicilia, nel 2018, sono stati stimati 27.150 nuovi casi di tumore, 13.900 uomini e 13.250 donne. Un dato in costante crescita, erano 25.700 nel 2016 e 25.950 nel 2017.

Le 5 neoplasie più frequenti nell’isola sono quelle del colon-retto (3.900), mammella (3.700), polmone (2.900), prostata (2.400) e vescica (2.150). Le percentuali di sopravvivenza a 5 anni dalla diagnosi, pari al 60% fra le donne e al 52% fra gli uomini, collocano la Regione al terzultimo posto in Italia, prima di Sardegna (60% e 49%) e Campania (59% e 50%).

I motivi sono da ricondurre soprattutto alla scarsa adesione ai programmi di screening e agli stili di vita scorretti: fumo, sedentarietà e sovrappeso sono particolarmente diffusi fra gli abitanti dell’isola.

È la fotografia dei tumori in tempo reale che ci fornisce l’ottava edizione del volume “I numeri del cancro in Italia” realizzato dall’Associazione italiana di oncologia medica (Aiom), dall’Associazione italiana registri tumori (airtum), da Fondazione Aiom e Passi (progressi delle aziende sanitarie per la salute in Italia), corredata dei dati di confronto regionale di incidenza, sopravvivenza, prevalenza e mortalità di tutti i tumori.