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Gioco d’azzardo, un volume d’affari pari a 107 miliardi nel 2018

Disoccupati, pensionati, lavoratori e studenti.  Non c’è un unico profilo nel mondo del gioco d’azzardo, una piaga sociale spesso silenziosa che affligge moltissime famiglie. Su questo tema mette l’accento “Lose for life – Perdi per la vita. Come salvare un Paese in overdose da gioco d’azzardo”, un progetto realizzato da Avviso Pubblico, in collaborazione con il mensile Altreconomia e il Master in Analisi prevenzione e contrasto della criminalità organizzata e della corruzione, dell’Università di Pisa. Un saggio su una dilagante criticità che investe giovani e meno giovani come un fiume in piena, curato dai maggiori esperti del settore, con un focus sulle azioni efficaci in termini di prevenzione. Nel libro vengono presentate anche alcune esperienze messe in campo dai Comuni che hanno affrontato adeguatamente la dimensione problema.

In Italia nel 2018, la raccolta dei giochi pubblici, cioè il numero delle puntate registrate nell’arco dell’intero anno, è stata pari a 106,8 miliardi di euro (in aumento del 5% rispetto al 2017). A dirlo il 6 marzo 2019, il direttore dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, Benedetto Mineo, sentito in audizione dalla Commissione Finanze della Camera, che ha fornito i primi dati, non consolidati, relativi al gioco d’azzardo legale nel 2018 La spesa, ossia le perdite complessive dei giocatori, che si ottengono sottraendo le vincite dalla suddetta raccolta, si attesterebbe intorno ai 19 miliardi di euro, un dato in linea con l’anno precedente.  Il 55% dell’importo, circa 10.5 miliardi di euro, corrisponde al gettito erariale incassato dallo Stato.

Ogni mese in tutti i territori della Penisola viene perso quasi un miliardo di euro in apparecchi da intrattenimento, la terminologia utilizzata dall’industria dell’azzardo per indicare le slot machine (tecnicamente Awp) e le videolottery. Un business ad alto rischio sociale poiché sono molti i casi crea dipendenza. Di ludopatia si parla quando s’incontra l’incapacità di resistere all’impulso di giocare d’azzardo o di fare scommesse, nonostante l’individuo che ne è affetto sia consapevole che il reiterarsi dell’azione compulsiva possa portare a gravi conseguenze. Il rischio a cui può incorrere il ludopatico, inoltre, non è solo la perdita incontrollata delle proprie risorse economiche (o di quelle familiari) ma anche la dismissione delle normali attività quotidiane (come lo studio e il lavoro), nonché lo sfilacciamento dei legami affettivi. Nei casi più estremi, la malattia del gioco compulsivo può portare persino al suicidio.

La dipendenza da “gioco” si colloca nel novero dei disturbi mentali ed è caratterizzata dall’incapacità di resistere alla tentazione “persistente, ricorrente e maladattiva” di giocare diverse somme di denaro. Le conseguenze più dirette si manifestano nel deteriorarsi delle attività personali, familiari e lavorative. Un fenomeno trasversale che vede tuttavia il 58,1% dei ragazzi impegnati nella pratica del gioco d’azzardo. E secondo una ricerca curata dall’Istituto di fisiologia clinica del Cnr, l’8 % dei giovani dedito ad esso ha, in breve tempo, comportamenti problematici.

Su questo sfondo rilevante può essere il ruolo dei Comuni nel contrasto al gioco d’azzardo patologico, con specifiche ordinanze riferite alla riduzione degli orari di apertura delle sale giochi, sale videolottery e sale scommesse o di funzionamento degli apparecchi installati in bar, tabaccai o altri esercizi commerciali, nonchè la distanza dai luoghi sensibili come scuole, impianti sportivi, stazioni di treni o autobus, ospedali o case di cura. Il comma 569 della Legge di bilancio n. 145 del 30 dicembre 2018 prevede che “al fine di rendere effettive le norme degli  Enti  locali  che disciplinano l’orario di funzionamento degli  apparecchi”, a partire dal primo giorno di luglio 2019, Comuni ed Enti locali potranno rivolgersi all’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli per verificare l’effettiva applicazione delle ordinanze emanate sulle limitazioni degli orari da gioco relative agli apparecchi da intrattenimento. Una possibilità al momento limitata alla sole videolottery, mentre per quanto concerne le slot machine (AWP) la disposizione è rimandata all’effettiva introduzione delle AWPR, le slot di nuova generazione a controllo remoto, prorogata al 2020.

Nel corso dell’audizione presso la Commissione Finanze della Camera, tenutasi il 6 marzo 2019, il direttore dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, Mineo, insieme alla responsabile direzione Dogane e Monopoli di Sogei, Carla Ramella, hanno presentato l’applicazione denominata Smart(Statistica e monitoraggio della raccolta territoriale), che sarà messa a disposizione degli Enti locali per controllare il flusso di gioco su rete fisica e la verifica dell’effettiva applicazione delle ordinanze emanate sulle limitazioni degli orari di gioco, relative agli apparecchi da intrattenimento VLT. L’applicazione Smart, attualmente in fase di collaudo, rappresenterà due categorie di informazioni: i volumi di gioco su rete fisica e i punti vendita. I dati relativi ai volumi di gioco ad oggi disponibili si riferiscono all’ultimo triennio (2016-2018) e saranno implementati con cadenza trimestrale, in relazione ai dati dell’anno in corso. I punti vendita saranno invece visualizzabili attraverso una rappresentazione cartografica. A partire dal mese di luglio verrà, infine, resa disponibile un’altra funzionalità, relativa al monitoraggio degli orari di accensione degli apparecchi VLT. I Comuni interessati potranno così inserire i dati delle proprie ordinanze e regolamenti ricevendo una comunicazione sui singoli apparecchi che violino le restrizioni.

Un nuovo fungo super-resistente può uccidere in tre mesi

Un report del New York Times ha rivelato qualcosa di inquietante che riguarda la salute pubblica. Diversi mesi fa in un ospedale di Brooklyn è stato ricoverato un anziano il quale ha successivamente subito un intervento chirurgico all’addome. Durante le analisi di routine post-operatorie è stato scoperta la presenza di un infezione fungina causata dalla Candida auris. Quest’ultimo è stato scoperto solo di recente, ma apparentemente è già diffuso a livello globale.

Tale fungo è pericoloso in quanto può risultare fatale quando si trova di fronte un sistema immunitario debole come quello di un anziano.

Il CDC, o Centers for Disease Control, ha definito il fungo come una serie minaccia in quanto è risultato resistente a diversi trattamenti e al farmaco noto come fluconazolo. I morti, accertati, finora sono stati 3400 tra Spagna, Grand Bretagna, Venezuela, Sud Africa e altri paesi. Solo a New York sono stati registrati 51 casi clinici e 61 casi paziente. Come detto poc’anzi l’infezione può risultare mortale in caso di un sistema immunitario debole mentre il range d’età dei casi registrati varia dai 21 ai 96 anni.

 

Il desiderio del centro politico

Dopo aver letto l’intervista di Lucio D’Ubaldo  a Guido Bodrato su Il Domani d’Italia  : “Il centro ha bisogno di cultura politica…” ; dopo i vari interventi seguiti: Prodi  “…Anche Prodi auspica la nascita di un partito più al centro ” ; Dellai : “Un nuovo centro” ; Di Giovan Paolo : “Centro, …solo un ‘nome nudo’ ; Capozza: “Essere al centro” ; ma anche Cacciari, Monaco, Fioroni,  in questi giorni, Panebianco e altri, che ruotono attorno allo stessa tema del centro politico moderato e dei cattolici in politica, mi sono sentito in disagio. Un disagio scaturito dal disaccordo su questo “Desiderio di Centro” e, nello stesso tempo, dalla stima che porto a Lucio D’Ubaldo, per il suo  tenace impegno prima culturale e solo dopo politico, che meriterebbe un riconoscimento. D’Ubaldo, non da oggi, rivolge il suo sguardo al ritorno dei cattolici sulla scena politica, facendomi vivere una profonda  contraddizione, dal momento che comprendo e condivido questo suo desidero. Di cui ne riconosco tuttavia le difficoltà storiche e sociali. E’ tempo , il nostro, di auspicare il ritorno del c.d. Centro politico connotato dal cattolicesimo democratico e dal popolarismo, con i ceti medi e i moderati  protagonisti ? E’ tempo il nostro della ricerca di una casa e di una collocazione spaziale di questo elettorato ? E’ tempo il nostro di desiderare la “ri-composizione ” – direbbe Padre Sorge – di un’ area cattolico- democratica e popolare oggi completamente assente dal dibattito politico ?  Tutte domande e aspirazioni interessanti di cui si è fatto interprete il tenace D’Ubaldo con molto coraggio. Ma che, pur riconoscendone  la legittimità e il nocciolo culturale nascosto, mi hanno tuttavia reso un poco critico. Consapevole che i desideri e le aspirazioni sono sentimenti umani fisiologici e condizioni mentali che nascondono spesso nostalgia e mancanza, o ricerca,  di qualcosa. E che, anche se validi , sono sentimenti che spesso non si misurano con la realtà e con le ragioni della storia nei suoi veloci e futuristici cambiamenti.

E’ vero. Col sistema elettorale proporzionale, con cui verosimilmente andremo di nuovo a votare, siamo tornati indietro nella storia della democrazia italiana. Il pluralismo connesso ai sistemi proporzionali, può però portare a sviste se collocato in epoche storiche diverse. Ed è vero che il cattolicesimo sociale e democratico, il popolarismo, sono scomparsi dalla scena politica. Ma rispetto al passato ci sono almeno quattro novità: l’emergere di una drammatica pulsione irrazionale sovranista ed antieuropeista pericolosa per il futuro dell’Italia; il proliferare di partiti, partitini e liste, che si dichiarano  di sinistra , centrosinistra, centro, centrodestra e destra, tali da spingere tutti alla illusoria ricerca di un elettorato c.d. di centro moderato vecchi tempi; la scomparsa delle classi sociali, e della vecchia distinzione marxista unita alla crisi dei “ceti centristi”; la ormai irreversibile personalizzazione leaderistica della competizione che, amplificata dai media e dai social, ci fa vivere nel presente e ci spinge a votare una persona al posto di un partito con la sua storia, i suoi valori da difendere, il suo programma elettorale. .                                                                         

Se non vogliamo risalire a Cavour e a Giolitti, molti sono partiti, partitini e liste che una volta autodichiaratisi di centro moderato, avrebbero forse potuto avere un senso solo ai tempi di De Gasperi, messo di fronte ad un robusto ceto medio consegnatogli dal fascismo, e a una buona borghesia che De Rita e Bonomi, “La fine della borghesia “,  Cacciari “ La borghesia ? Uccisa dal capitalismo “  e altri diversi studiosi, hanno tentato di scovare ai nostri giorni, senza riuscirci. Partiti, partitini e liste, che oggi rappresentano la presa in giro di autentico pluralismo politico e culturale, pur rispondendo ad un sistema proporzionale che spinge alla frantumazione verso lo zero virgola .

Il centro politico “orizzontale” del secolo passato

Se stiamo dunque rispolverando il centro politico nella sua valenza moderata e cattolica, non è solo colpa del proporzionale. Ma anche desiderio di alcuni  uomini politici, un poco frettolosi nell’identificare il “centro” politico dei nostri tempi – specie se cattolico – con il ceto medio, con la seppellita borghesia, o con i c.d. moderati .  Questi ultimi pensati  come tranquilli e pacati conservatori contrari  ad ogni cambiamento, che amano lo status quo, e l’etablishement . La faccenda confonde di più le acque, quando compaiono ancora oggi sigle doppie che , grazie agli esistenti  sistemi maggioritari comunali e regionali, si dichiarano di centrodestra, centrosinistra, se non di sinistra centro e di destra centro. Ma tant’è.                                                                                     

Il centro politico è, in realtà, solo una grande finzione spaziale, geometrica e lessicale. Identificabile solo negli emicicli dei parlamenti. In questo senso ben presente nella storia delle democrazie moderne a partire dalla rivoluzione francese. Ma oggi addirittura inesistente in alcuni paesi di democrazia  “bipolare” anche in virtù dei loro sistemi elettorali e delle tavole rettangolari attorno a cui sono seduti i parlamentari. Così come è inesistente la nozione dei moderati nei dizionari di politica seri pur incontrando partiti e liste che si richiamano al centrismo moderato: nella scienza politica, il moderato non è previsto !  Tutto allora sta a capire cosa intendiamo nei nostri tempi con centro moderato, ceto moderato, cattolico moderato, ecc. Ma anche ceto medio e classe media. Chiarendo sin d’ora che dal punto di vita sociologico è eventualmente meglio descrivibile un centro di natura sociale, al posto di un centro politico, di un ceto moderato, di una classe media, di un cattolico –democratico di centro,ecc.     

Il centro politico “verticale”dei  nostri giorni

Dobbiamo riconoscerlo: oggi il dibattito tra liberali e illiberali, tra classe operaia e middle class, tra conservatori e innamorati del cambiamento,  tra capitalismo e democrazia , tra rivoluzionari e tradizionalisti, si è fortemente alleggerito dei contenuti ideologici novecenteschi. Peccato, però, che abbia rimosso gli “ Ultimi”, nuovi e vecchi. Il “Disordine globale  con i suoi  “Scenari di un mondo in trasformazione”  come titola la rivista “ Humanitas”  della Morcelliana, galoppa ormai indisturbato verso un futuro sconosciuto.  Di fronte all’emergere impetuoso degli “alti” poteri finanziari , e dei super-ricchi con le loro multinazionali globali, la società si è appiattita verso il basso. E   tutto quello che sta al di sotto di una sottilissima punta di un iceberg , si dovrebbe completamente ripensare . E’ dunque un errore definire la classe media di centro con una fascia di reddito ( da tot euro a tot euro)  e con la professione lavorativa supposta sicura ( impiegati , insegnanti, medici, commercialisti, ingegneri, quadri aziendali, piccoli imprenditori, piccoli proprietari terrieri, ecc,). Oppure con chi diserta le urne. Oppure, ancora peggio, con chi va a Messa la domenica . Non sono parametri che oggi spiegano bene. Se così,  dobbiamo allora fare un piccolo sforzo linguistico e d’immaginazione per trasferirci dalla posizione orizzontale di un centro equidistante da destra e sinistra, a quella verticale di un centro equidistante da alti e bassi, ricchi e poveri, primi e ultimi, eguali e diversi. Credo che così facendo possiamo comprendere bene sia la realtà nuova che ci sta attorno, sia le nuove sfide che ci attendono, e trarne le conseguenze. 

Con dei particolari che potrebbero forse  aiutarci. Per esempio, che in basso troviamo ben  il 70 % della popolazione con una pensione al di sotto di 1000 euro al mese. Che il 33% dei giovani 15-34 anni è senza lavoro. Che robuste quote di (ex) classe operaia vota M5s e Lega.   Fabrizio Barca nel suo scandaloso Forum “Disuguaglianze e Diversità” , parla ormai di ceti forti e di ceti deboli, trascurando i ceti medi che colloca tra i ceti deboli. Alcuni dati Oxfam 2016, gli danno pure  ragione: c’è un 1 % più ricco che accumula una ricchezza del 25 % di tutta la ricchezza nazionale, mentre una quota più ampia di ricchi, (il 10%)  arriva ad accumulare sino al 62 % lasciando il restante 38% da distribuire al 90 % di popolazione. Infine , e ricorrendo ad un dato controverso, solo il 5% dei contribuenti italiani dichiara più di 50 mila euro di reddito.                                                                                                     

Insomma se non crediamo più alla “Fine della Storia”, con la ricomparsa delle diseguaglianze non siamo più neanche nella “società dei 2/3”  immaginata da Peter Glotz che prevedeva ben 2/3 di popolazione inclusi nel benessere e nei suoi benefici, e solo 1/3 di esclusi .  Siamo invece sicuramente con i 2/3 di esclusi e in difficoltà, e solo di 1/3 di inclusi, dal momento che quel terzo che stava nel centro, chiamato classe media, ceto medio , moderati di centro, ecc. sta velocemente scomparendo  scendendo verso il basso. Con una aggravante di disattenzione verso questi fenomeni dal momento che oggi un 40- 45%, a volte 60 %, degli aventi diritto al voto diserta le urne. Ora, se noi desideriamo identificare il centro politico con il 70 % degli italiani che prendono una pensione al di sotto di mille euro al mese, con il 33 % dei giovani disoccupati, oppure con l’1% dei ricchissimi o con il 20% di popolazione benestante e ricca senza grossi problemi economici e incertezze sul futuro proprio e dei figli, oppure con quel 40-50% di assenti al voto, siamo liberi di farlo. Ma così facendo, compiamo una operazione culturale, sociale e politica totalmente  sbagliata. In particolare oggi quando robuste quote di popolazione hanno preso il discensore sociale facendo squagliare il ceto medio. Una operazione che tende, oggi, ad imbrogliare e a fare confondere gli elettori evocando una terra di mezzo inesistente nella realtà sociale e antropologica e nella domanda politica, mentre è presente nell’offerta. E che risulta molto vaga in assenza di chiare definizioni di centro moderato. Se invece vogliamo rivolgere lo sguardo alla popolazione italiana e ai suoi ultimi comportamenti elettorali, tutto possiamo fare tranne che evocare un partito di centro e un elettorato centrista, se non moderato e conservatore. Quel lontano centrismo dell’Italia cattolica di De Gasperi ad ispirazione sturziana e popolare, che nel 1951, oltre ad avere da fare con la Cortina di ferro e la ricostruzione, tra tutti i lavoratori italiani, registrava ben un 63% fra  coltivatori diretti e salariati agricoli contadini (fonte Sylos Labini).

Sarebbe  corretto aggiungere che quando si rimuove la linea verticale (alti e bassi, ricchi e poveri,) e si ritorna alla linea orizzontale (destra e sinistra, o, peggio, centrodestra e centrosinistra) il discorso, dal punto di vista della  storia politica della nostra democrazia italiana si fa certamente più pertinente. Ma solo, appunto, per la storia politica del secolo scorso. Si possono infatti riscontrare riferimenti storici notevoli per spiegare e capire bene il termine centro nel gioco della competizione elettorale proporzionale  dei nostri parlamenti nazionali. Così come si possono trovare definizioni convincenti che spiegano cosa significhi  destra e cosa sinistra una volta divisi – come ha sostenuto Norberto Bobbio – tra idee di uguaglianza e idee di libertà  e disuguaglianza.

Ridefinire l’offerta politica alla luce della rivoluzione antropologica e sociale in atto.

Qual è, allora, il problema di oggi? A mio avviso risiede nel fatto che continuiamo ad utilizzare categorie politiche che spiegavano solo per il passato alcuni fenomeni della democrazia e della società del nostro paese. Del suo livello economico e del suo sviluppo tecnologico.  Ma che ai nostri giorni e sotto la cappa di una irreversibile globalizzazione con i suoi centri finanziari di immenso potere, dovrebbero far riflettere, spingendoci a urgenti rivisitazioni e ridefinizioni con categorie fortemente creative, pensando al futuro che ci attende.

Non credo che di fronte al seppellimento  del partito politico solido di massa, un partito che dava speranze e suggeriva valori e principi, un partito, quello di oggi, del tutto mutevole e liquido nella raccolta del voto, e trovandoci di fronte alla personalizzazione del partito con il suo leader in diretto rapporto con l’elettore , non credo dicevo che  utilizzando la nozione di centro si riesca a spiegare e capire qualcosa dei nostri tempi. Voglio ricordare che il più coraggioso europeista dei nostri giorni è il presidente senza partito di un paese, la Francia, dove la classe operaia vota per la Le Pen.

Così come non credo che, di fronte all’avanzata dei nuovi populismi  con la passionale ricerca di capri espiatori, e di fronte ai pericolosi nazionalismi e localismi emergenti ,antieuropei,  con la terra, il sangue, la lingua, e le tradizioni …e perfino la razza – una presa in giro dell’autentico comunitarismo -, messi nei loro programmi romantici e sbandierati nelle loro manifestazioni, la riposta sia quella di un partito di centro che comunica attraverso  twitter e social.media

Credo di più, invece, che, di fronte ai rivolgimenti sociali, antropologici e culturali inimmaginabili per tutto il Novecento,  di fronte alla seria crisi dei ceti medi saliti come dicevo sul “discensore”, ma che bene o male componevano il centro c.d. moderato nel secolo passato -, non bisogna stare immobili sulla riva del fiume richiamandoci a interpretazioni e paradigmi superati dalla storia. Forse è bene cominciare a pensare che i moderati, quelli senza problemi economici, educati e per bene, tranquilli e fiduciosi sul futuro loro e dei figli, nemici delle grandi “rivoluzioni”, hanno oggi ceduto il posto all’intemperante odioso, al nervoso preoccupato, alle famiglie benestanti con i figli disoccupati e senza molte speranze di trovare lavoro Al pauroso dello straniero altro e diverso. Al  razzismo strisciante odioso di tutti quegli “stranieri” che tolgono il lavoro e il pane agli italiani.

Il nuovo centro … in  basso ?

Penso , allora, che sia indispensabile declinare valori e principi del vivere insieme e della democrazia costituzionale nello “spirito dei tempi” che viviamo. Interpretando bene i rivolgimenti sociali sopraggiunti. Scoprendo categorie esplicative e definizioni completamente inedite, in grado di farci capire la storia che viviamo e le novità che ci attendono. Il che ci potrà aiutare nel confezionare programmi e offerte di politica realistica, una volta che facciamo lo sforzo –imprescindibile– di sovrapporle alle novità antropologiche, culturali e sociali  causate dalla inarrestabile globalizzazione in atto . In questo senso, rivolgersi agli elettori moderati di centro, specie quando si comprendono i “cattolici democratici moderati” che per definizione non sono mai stati moderati, è un grosso abbaglio . Il moderato, lo possiamo trovare  sia nella vecchia destra che nella vecchia sinistra,e perfino nei nuovi partiti sopraggiunti. E non solo nel mezzo della vecchia dimensione spaziale e politica orizzontale. Attrarlo oggi in un luogo di centro, anche ricorrendo a spezzatini irrilevanti di programmi  simili , è operazione inutile e culturalmente sbagliata. Il fatto è che siamo di fronte ad un elettorato antisistema e arrabbiato, incerto sul suo futuro che , grazie a Dio – dico io – ha trovato il suo sfogo senza scendere in Piazza con gilet neri,  e la sua rappresentanza addirittura parlamentare, in un Movimento fondato da un comico che lo dichiara né di centro, né di sinistra, né di destra.  Almeno nel significato spaziale che noi davamo a questa orizzontalità politica nel secolo passato. L’elettorato del  M5s che ha vinto il 4 marzo, ma che ha iniziato a riversare i suoi voti alla Lega, come dicono i sondaggi, è un elettorato presente tanto al Nord sviluppato quanto al Sud sottosviluppato. Trasversale e in parte simile a quello della Lega dal punto di vista socio demografico. La cui composizione presenta alcune caratteristiche che dovrebbero preoccupare i sostenitori di un “Nuovo Centro” : elettorato formato da un  picco di giovani, donne e uomini, 30-44 anni; con il 41% di giovani 18-24 anni; con il 43% di operai, il 27% di impiegati, il 20% di casalinghe , il 13% di disoccupati . Con il 36% di diplomati di scuola superiore e il 29% di laureati . La Lega invece ha un 11% laureati ,14% diplomati, 20% licenza elementare. C’è infine un 20% (media tra M5s e Lega), che dichiara di andare a Messa tutte le domeniche , e che ci fa capire che il voto c.d. cattolico , non da oggi è disperso e frammentato : sondaggio CISE – Sole 24 ore. E’ stato  l’Ipsos infine a suggerire che la classe operaia,la classe media e medio bassa non votano Pd, e che i voti il Pd li prende dalla classe medio alta

Oggi in conclusione c’è da chiedersi perché la Lega – contro il sistema e le istituzioni ma oggi facente parte del sistema e delle istituzioni, contro l’Europa e  sovranista, a favore dell’éstablishment o contro l’éstablishment, a favore delle competenze o contro le competenze, con la tuta della Croce rossa, o con il Vangelo o Rosario in mano, a Verona con le famiglie, a Torino con la Tav  , ecc. – cresca sempre di più e non dia cenni di esaurimento. Noi, invocando il centro, non diamo nessuna risposta. Evitando di riflettere sui motivi di fondo che hanno radicato nella società un Movimento come quello di Grillo e una Lega come quella di Salvini.  Che sono stati capaci di fare sparire , nel migliore dei casi assorbiti, il centro, i moderati di Centro, i cattolici moderati di centro, vecchia sinistra e vecchia destra. Se proprio vogliamo mantenere le categorie del secolo passato, seppure un ceto medio di centro misurato col reddito esiste, non è un ceto medio che guarda al centro moderato, perché senza speranze per il futuro,  e perché pieno di incertezze e paure . Ricorrendo alle obsolete definizioni spaziali, siamo di fronte ad una nuova destra senza che ci sia segno di una nuova sinistra. Basta solo evocare un centro per risolvere la questione ? Se così , torno in conclusione a chiedermi:  ma quando parliamo di centro a chi ci riferiamo, e di che cosa vogliamo parlare? Se è legittimo invocare un ritorno del cattolicesimo democratico sulla scena pubblica, esso non si può giustificare con la presenza di un sistema proporzionale. Ne delegare ad un partito di centro moderato senza riscontri sociali. Ritornare al prepolitico si può. Ritornare a studiare i cambiamenti si può. Ritornare all’associazionismo di base per la formazione di classe politica, si può. Pensare ad una Fondazione culturale e a scuole di formazione per non mettere in cantina il cattolicesimo democratico, la Dottrina Sociale della Chiesa, si può. Quello che non si può fare è evocare  categorie politiche scomparse.

Marina Amori: le comunità territoriali di piccole dimensioni meritano di essere salvate

Riportiamo ampi stralci dell’intervento di apertura del convegno su “Il futuro dei piccoli comuni di montagna”, tenutosi sotto gli auspici della rivista mensile “Borghi Magazine” ieri mattina a Poggiodomo, municipio con appena 101 abitanti in provincia di Perugia.

I demografi e i sociologi ci raccontano di una evoluzione che già possiamo toccare con mano, qui attorno a noi, relativa alla crescita esponenziale delle grandi città. Nei prossimi 20 anni si presume che nel mondo, specialmente nell’Asia altamente popolata, la concentrazione urbana costituirà il fattore decisivo della organizzazione dei diversi sistemi sociali e nazionali. La dimensione delle megalopoli, con 20 o 30 milioni di abitanti, non sarà più un’eccezione. Città del Messico o Il Cairo, Pechino o Londra, Lagos o Los Angeles, saranno affiancate da altre analoghe, immense conurbazioni. Cambierà pertanto il senso dell’appartenenza e dell’identità sociale, non solo per le persone coinvolte direttamente in questo gigantesco processo di accentramento. Ogni confronto determinerà la consapevolezza di essere in un’epoca profondamente diversa dal passato.

Oggi, in Italia, pensiamo a Roma o Milano o Napoli come grandi città; ma domani non potremo avere più la medesima percezione. Dovremo mutare il nostro paradigma di giudizio, dovremo chiederci che cosa resterà della tradizionale “visione” dei nostri comuni a dimensione umana. Non penso che potremo accettare che nulla sopravviva all’ipertrofico contesto urbano e metropolitano. Forse scopriremo che solo il retroterra di tante comunità territoriali – piccole ma feconde – potrà conservare il carattere più intimo di una civiltà a misura d’uomo.

La storia c’insegna che la rivoluzione comunale dell’XI e XII secolo rappresentò in Italia la fine del feudalesimo e il distacco, senza spargimento di sangue, dal castello feudale. Nel nostro DNA di nazione opera questa peculiare esperienza di “rinnovamento nella libertà”. I nostri comuni sono l’emblema di una trasformazione pacifica e nondimeno generosa, fervida e nondimeno tumultuosa. Dunque siamo figli, anche noi, di tale “vissuto storico”. In questo senso il legame con il passato ci porta alla difesa di valori e convinzioni radicate e conseguentemente anche di pietre e muri che ne incarnano il significato di generazione in generazione.

Come dice Vittorio Sgarbi nella sua lezione magistrale “Borghi e città: il paesaggio della bellezza italiana”, le piccole comunità rappresentano il luogo della memoria, della testimonianza del lavoro, della cultura e delle tradizioni delle generazioni che ci hanno preceduto, cultura e tradizioni che meritano di essere salvaguardate, difese e ricordate.

Siamo qui, allora, per immaginare che un piccolo comune debba aiutarci a regolare gli orologi del tempo che verrà; a spostare in avanti il confine tra spopolamento delle aree interne o di montagna ed espansione demografica dei maggiori centri urbani; a rendere visibile la necessità di un nuovo equilibrio, con tanti Poggiodomo in prima fila nel fare ancora dell’Italia una terra di bellezza e di senso della vita. È il motivo di fondo che autorizza a predicare la necessità della “salvezza” dei nostri comuni minori.

I numeri sono impietosi. Di questo passo, se non s’inverte la marcia, la perdita di popolazione minaccerà l’esistenza di tanti municipi. Poggiodomo è un esempio: eravamo 731 abitanti nel 1959 – lo abbiamo appreso dal breve filmato della Rai – e oggi siamo giunti ad appena un centinaio. I giovani fanno altre scelte, inseguendo opportunità che nascono e crescono nei luoghi della globalizzazione metropolitana. Diventa faticoso perxiò prevedere un futuro positivo dinanzi a una curva discendente di tipo anzitutto demografico. Occorre un salto di fantasia e un atto di sana caparbietà: le tecnologie ci vengono in soccorso e spetta alle persone – a tutti noi – impiegarle per il rilancio della dimensione comunitaria locale, anche negli agglomerati di poche centinaia d’anime.

Non dimentichiamo che la cultura e la conoscenza sono il vettore della speranza per la rinascita dei piccoli comuni. Diversi ambiti, a partire dall’agricoltura, possono trovare l’innesco di nuove formule di progresso; un  progresso che passa anche attraverso il ripensare alle infrastrutture e ai trasporti, il potenziamento delle comunicazioni – rendere efficiente l’introduzione della banda larga – e dei servizi. Tutto questo è la condizione necessaria per garantire la “tenuta” del territorio.

Non è detto che il lavoro e la ricchezza debbano allocarsi esclusivamente lungo l’asse delle condizioni offerte dal sistema delle grandi città. Non è un destino ineluttabile.

Le cronache riportano sempre più spesso informazioni interessanti sulle scelte che sindaci e amministratori coraggiosi hanno pensato di intraprendere per rivitalizzare le loro comunità che sono fortemente esposte al rischio di estinzione. È uno sforzo che vale per i singoli territori, ma contribuisce a rinvigorire il tessuto umano e civile del Paese. Dobbiamo nutrire la speranza di un “rinascimento di prossimità”, un qualcosa che sia in grado di mobilitare, intellettualmente e politicamente, le energie sparse  in lungo e in largo quali espressione della cosiddetta “Italia minore”. Anche l’ambiente, fonte di preoccupazione ormai diffusa, può essere salvato attraverso una sorta di gemellaggio permanente tra città e piccoli comuni, operando in questo modo a tutela dei beni di natura.

Giuseppe Blasi, sviluppo e rilancio delle comunità di montagna

Contributo scritto, in assenza dell’autore, al convegno su “Il futuro dei piccoli comuni di montagna”, organizzato ieri mattina dalla rivista mensile “Borghi Magazine” a Poggiodomo, municipio di 101 abitanti in provincia di Perugia.

Lo sviluppo dei Comuni di Montagna è un problema fortemente dibattuto da molto tempo, purtroppo senza grande successo.

Il Caso Poggiodomo è simile a tante altre realtà italiane; vi faccio un altro esempio molto significativo e da me ben conosciuto, perché si tratta del mio Comune di origine e residenza, situato sul versante pesarese dell’Appennino Umbro-Marchigiano, dove nel 2018, su di una popolazione di poco inferiore ai mille abitanti, sono stati registrati 15 decessi e nessuna nascita.

Se allarghiamo lo sguardo, ci rendiamo conto che quasi un terzo del territorio nazionale è lontano più di 40 minuti (spesso più di 80) da centri che offrono un sistema completo di servizi di base, vale a dire scuola, salute e mobilità. Su questi territori, vive il 7,6 per cento della popolazione italiana, pari a circa 4 milioni e mezzo di cittadini.

Si tratta di aree caratterizzate da grande diversità naturale, produzioni agro-alimentari di assoluta eccellenza, anche se di nicchia, un patrimonio culturale e paesaggistico inestimabile, usi e consuetudini locali di grande interesse.

Nonostante tutti questi pregi, in questi Comuni si assiste ad una inarrestabile caduta demografica: meno 1,4 per cento fra il 2001 e il 2011; un progressivo invecchiamento della popolazione; una forte riduzione del presidio e della manutenzione del territorio, in particolare dei boschi e dei pascoli, ma anche degli edifici e delle infrastrutture viarie, con effetti negativi anche sulle altre aree del Paese, soprattutto per quanto concerne il dissesto idrogeologico e le calamità naturali.

Le politiche comunitarie, in particolare quelle per la Coesione e lo Sviluppo Rurale, hanno dedicato, fin dalla loro nascita (avvenuta alla fine degli anni ’80), una grande attenzione alla dimensione territoriale dello sviluppo. Ciò significa essenzialmente un’attenzione alle differenze territoriali e ai fabbisogni specifici che i diversi territori esprimono.

Tuttavia, la riduzione dei divari territoriali è stata interpretata in passato per lo più in chiave di divari tra Regioni, dove la Regione corrisponde ad una determinata unità amministrativa.

In realtà, nel tempo è emersa la necessità di concepire una politica regionale in cui è sempre più importante l’articolazione sub-regionale e il coinvolgimento degli attori locali, sia nella definizione sia nell’attuazione delle politiche.

Questa nuova politica, che parte da una articolazione territoriale molto più dettagliata, ha come criterio definitorio l’accessibilità ai principali servizi di base, vale a dire scuola, sanità e ferrovie e, sulla base di questo, identifica le profonde differenze che esistono all’interno sia delle Regioni ricche, sia di quelle povere, tra territori centrali e territori periferici, in termini di scarso e/o problematico accesso a questi servizi, e delle ricadute che questa situazione strutturale provoca sui processi di sviluppo economico e sulle possibili politiche volte a sostenerne il rilancio.

E’ nata così la politica delle aree interne, lanciata dal Governo in corrispondenza dell’avvio del periodo di programmazione 2014-2020, oggi in fase di lenta e difficoltosa attuazione.

Non vi preoccupate, non voglio fare una relazione sulle aree interne, voglio però partire da questa esperienza, per cercare di capire cosa manca per il rilancio dello sviluppo.

La politica in favore delle aree interne non ha preso a riferimento solo l’accessibilità ai servizi di base, ma anche la governance, in particolare cercando di stimolare gli attori locali già nella fase dell’elaborazione delle strategie di sviluppo.

Questo approccio, si caratterizza anche per l’impegno congiunto del Governo nazionale, delle Regioni, e dei Comuni coinvolti.

Si tratta di un’impostazione molto complessa, perché comporta un forte impegno in termini di risorse umane e tempo, per enucleare quelle energie nascoste e quelle potenzialità che vanno sollecitate con un’attenta operazione di scouting.

E’ necessario lavorare come in laboratorio, ma senza conoscere le formule precise per le giuste combinazioni.

Innanzitutto, occorre rafforzare l’osservazione e la conoscenza dei luoghi, attraverso un’analisi in grado di individuare esperienze innovative sui temi socio-ambientali, sui nuovi abitanti delle aree interne, sui percorsi nelle pratiche di produzione e consumo alimentare, sulla produzione di qualità in agricoltura.

Molto spesso, l’esistenza di forme di gestione associata rappresenta un importante segnale sulla capacità di progettazione dei vari interventi; si tratta di una condizione determinante per attivare efficacemente un progetto pilota e, soprattutto, costituisce una condizione fondamentale per rendere permanenti gli interventi realizzati.

Il ruolo dell’agricoltura e delle foreste nei processi di sviluppo locale in questi casi è sempre rilevante. Se guardiamo bene, queste aree sono sempre caratterizzate da grandi potenzialità di sviluppo di produzioni agro-alimentari di qualità, ma frenate da problematiche di tipo organizzativo, sul versante della cooperazione tra produttori, su quello dell’integrazione della filiera e su quello dell’accesso al mercato.

Lo stesso discorso vale per la filiera del legno, caratterizzata da forte potenzialità nella fornitura di due categorie di prodotti e servizi: i prodotti con mercato, vale a dire legname ad uso industriale, legna per bioenergia e prodotti forestali non legnosi, e i servizi ambientali e sociali, fortemente legati anche allo sviluppo del settore turistico.

Le possibili interdipendenze con altri settori dell’economia locale sono rilevanti, ma manca un’iniziativa seria per favorire l’associazionismo privato e una gestione delle proprietà pubbliche, molte delle quali sono sotto-utilizzate o abbandonate.

E veniamo al dunque del problema.

Se guardiamo bene, non mancano le risorse o le possibilità, mancano le persone che possano tradurre queste possibilità in azioni concrete.

Da questo punto di vista, un ruolo fondamentale è affidato ai Sindaci, che da soli non possono certo innescare lo sviluppo di un territorio, ma possono sicuramente favorire la nascita di iniziative da prendere ad esempio, in modo che a queste possano seguirne altre, e far ripartire il sistema.

È necessario quindi scegliere bene le persone, perché è sulla qualità delle persone che si costruisce il futuro di una comunità.

*Giuseppe Blasi

Capo Dipartimento politiche europee e internazionali e dello sviluppo rurale

(Ministero delle politiche agricole alimentari, forestali e del turismo).

I cattolici nei tempi nuovi della cristianità

Articolo già apparso sulle pagine di www.mentepolitica.it a firma di Francesco Provinciali

Abbiamo imparato sui banchi di scuola a contestualizzare gli eventi, collocandoli nel presente e – insieme – nel flusso dei fatti della storia. La contestualizzazione è l’opposto del radicalismo ideologico e del dogmatismo: è aderenza alla realtà e sua lettura, attraverso gli strumenti del pensiero critico, della ragione e dell’etica.

Non significa “secolarizzare” o rendere relativo e avulso dalla storia il presente: al contrario implica uno sforzo di conoscenza, comprensione e interpretazione della realtà per vivere con maggiore consapevolezza il proprio tempo.

Siamo tutti in diversa misura attori e partecipi della vertiginosa accelerazione impressa al ‘modus vivendi’ e al ‘modus operandi’ nei costumi sociali e negli stili di vita individuali degli ultimi decenni, anche in relazione alla straordinaria incidenza che le nuove tecnologie e la loro diffusione hanno avuto nella deriva della globalizzazione e in quella opposta che le sta subentrando: poiché i corsi e ricorsi storici ci hanno insegnato che non esiste un anno zero, in cui tutto si annienta per dare spazio ad una improbabile teoria del cominciamento che escluda una continuità con il passato.

Siamo inesorabilmente legati a doppio filo alle coordinate spazio-temporali della storia, che è continuità, flusso, deriva, divenire, panta rei.

In molti hanno colto l’immenso sforzo della Chiesa nella seconda metà del ‘900 di contemperare l’ortodossia della dottrina con l’aderenza all’evoluzione culturale, economica e sociale dell’umanità.

Non più (solo) la Chiesa del “secretum et archivium” ma la Chiesa che si misura e si confronta con il mondo.

Non possiamo dimenticare le parole con cui Papa Giovanni XXIII aprendo il Concilio Vaticano II – nel lontano 1962 – metteva in guardia dai “profeti di sventura, che annunziano eventi sempre infausti, quasi sovrastanti la fine del mondo. Nei tempi moderni essi non vedono che prevaricazione e rovina, vanno dicendo che la nostra età, in confronto con quelle passate, è andata peggiorando e si comportano come se nulla abbiano imparato dalla Storia che pure è maestra di vita”. Troviamo in queste parole la prima grande apertura ai tempi nuovi dell’era moderna. Né si può tacere una più recente esortazione di Papa Francesco nell’omelia di Santa Marta del 23 ottobre 2015 …” I tempi cambiano e noi cristiani dobbiamo cambiare continuamente” … “È proprio della saggezza cristiana conoscere questi cambiamenti, conoscere i diversi tempi e conoscere i segni dei tempi. Dobbiamo cambiare saldi nella fede in Gesù Cristo, saldi nella verità del Vangelo, ma il nostro atteggiamento deve muoversi continuamente secondo i segni dei tempi”.

Una esortazione di fondamentale importanza che spiega il rinnovamento impresso da Papa Francesco alla Chiesa cattolica, come apertura di credito all’agire dell’uomo e impulso ad un continuo riallineamento tra ortodossia e realtà

Questi brevi riferimenti contengono spunti di riflessione e sono di stimolo ad una presenza dialogante nel dibattito culturale del nostro tempo, con riguardo ai temi della famiglia, dell’educazione, del lavoro, della sicurezza, dell’informazione, dell’emigrazione che incombono in un mutato contesto sociale di vita dove emergono nuovi diritti individuali e collettivi.

Dopo l’ubriacatura espansiva verso il “possesso del mondo” (finanza, denaro, successo, carriere, competizione, invidia) Papa Francesco ci parla di povertà, mitezza, benevolenza, misericordia.

Oltre la dimensione strettamente religiosa, dovremo indirizzarci verso nuovi stili di vita e misurarci con una più consapevole sobrietà.

Come ricorda Giuseppe De Rita…” Dobbiamo rimettere gli altri al centro dei nostri interessi, evitando di misurare l’esperienza delle cose e della vita a partire dai nostri personali egoismi, e allontanandoci da quella sorta di fagocitosi del mondo che ci conduce ad una concezione esclusivamente individualistica e possessiva della vita. A questo si aggiunga la capacità straordinaria della Chiesa di leggere e anticipare i tempi e inoltre di indicare e aggiornare modelli esistenziali più consoni allo spirito del Vangelo”.

Parole che indicano una strada ai cattolici del nostro tempo, per non essere “profeti di sventure” ma artefici di speranze.

Anche proprio a partire da una presenza nella gestione della res publica, poiché come descritto da Bauman e Blumenberg mancano a questa società liquida approdi e porti che ci evitino il naufragio, riferimenti e valori caduti in disuso e mai sostituiti, visioni di modelli sociali rassicuranti che reggano l’impatto con il declino della responsabilità e della competenza, ancoraggi sicuri nel mare magnum della decadenza culturale e del pressapochismo etico che sembrano affliggere questa epoca.

Quale contributo possono offrire all’idea di bene comune e di interesse condiviso i cattolici impegnati in politica, ai quali spesso la Chiesa stessa –avendo superato la dicotomia tra potere temporale e spirituale – chiede un impegno attivo e propositivo? Ripartire dalle origini: è un invito ricorrente e a più voci, della Chiesa stessa, del mondo dell’associazionismo, della politica che ha un fondamento nei padri nobili, Don Sturzo, De Gasperi, La Pira, Dossetti e quelli che parteciparono alla stesura del Codice di Camaldoli e alla Costituzione Repubblicana. Fermo restando il principio della laicità dello Stato, spetta ai cattolici portare un valore aggiunto che fa la differenza. Ricorda il Teologo Mons. Bruno Forte: “Il fondamento dell’idea di bene comune, nella prospettiva del personalismo cristiano, non può che essere la dignità infinita di ogni essere umano, soprattutto del più debole. Bisogna riconoscere l’altro non come concorrente o avversario, ma come dono: è solo allora che il bene comune si illumina del suo senso più profondo.

Si tratta di un bene che realizza la persona umana in tutte le sue potenzialità, ad ogni livello, a cominciare da quello di chi meno ha ricevuto, ha meno possibilità ed è più esposto alla tirannia del tempo e allo sfruttamento dell’altro. Quando l’idea di bene comune saprà essere coniugata nei fatti e nelle scelte alla promozione di tutto l’uomo in ogni uomo, manifesterà tutta la sua straordinaria potenzialità e questa è la grande ispirazione della dottrina sociale della Chiesa che sta alla base della nostra Costituzione Repubblicana, attraverso il Codice di Camaldoli che entrò nello spirito costituente come carta fondamentale della convivenza civile nel nostro Paese. Concludiamo questa riflessione con Giuseppe De Rita: “Trovo che quello che manca alle nostre modalità di conoscenza della vita e del mondo sia fondamentalmente il concetto di “prossimità”. Oggi viviamo e annunciamo il primato del remoto e dell’ignoto mentre invece la qualità umana e sociale è impregnata da valori umani, individuali e comunitari.  Dobbiamo riscoprire il senso della comunità, il gusto del farne parte. Non possiamo immaginare che la democrazia consista e si risolva nel mandare un certo numero di mail, nel presenziare nel web o nel rispondere ad un blog. La vita è fatta di passioni, emozioni, sentimenti, azioni concrete, conoscenza e riflessione”.

Confrontarsi con lealtà e coraggio, lo sguardo rivolto al futuro.

Scuole, aule sempre più vuote

Dalle tabelle sulle iscrizioni risulta che al prossimo anno si sono iscritti 69.256 studentesse e studenti in meno, un calo dello 0,9% che assume dimensioni diverse se si considera l’andamento degli ultimi tre anni, in diminuzione costante e crescente. Oltre 45mila in meno nel 2016/17 rispetto all’anno precedente. Altri 67.754 in meno nell’anno successivo e 75.215 quest’anno scolastico rispetto al precedente. In totale si sono persi 188.583 alunne e alunni nei quattro anni scolastici a partire dal 2015/16, con un calo del 2,4%. E in futuro non si intravedono segnali di miglioramento. Anzi. Le altre tabelle all’esame del ministro e dei sindacati mostrano un calo di 369.057 studenti nei prossimi cinque anni in tutta Italia, quasi quanto una città come Bologna o Firenze.

Analizzando i dati regionali, il calo è più evidente al Sud e un po’ minore al Nord ma c’è una sola regione dove di anno in anno non si assiste a una diminuzione delle alunne e degli alunni presenti in classe, è l’Emilia Romagna, che a settembre porterà 1484 alunne e alunni in più nelle sue aule. Il record negativo spetta alla Basilicata dove da settembre entreranno nelle aule 1742 studentesse e studenti in meno, un calo del 2,23%, in Calabria 5418 con un calo dell’1,96%, in Puglia 11.202 in meno con un calo dell’1,91% e in Campania altri 15.535 in meno con un calo dell’1,77%. In totale nelle regioni del Sud si perdono 48.570 alunne e alunni, il 70% del totale italiano.

Da oggi si potranno chiedere gli incentivi per l’acquisto di auto elettriche e ibride

Da oggi si potranno richiedere gli incentivi per  le auto elettriche con valori di emissioni di anidride carbonica (CO2) da 0 fino a 20 g/km con un prezzo di listino massimo di 61mila euro IVA compresa; e le auto ibride con emissioni di CO2 comprese tra 21 e 70 g/km.

Per la prima categoria la riduzione del prezzo è di 6mila euro se si rottama un’auto Euro 1, 2, 3 o 4, di 4mila senza rottamazione. Per la seconda categoria, si ottengono 2.500 euro con rottamazione e 1.500 senza.

I modelli di auto che ne beneficeranno

Toyota Prius Plug-in Hybrid – incentivi da 1.500 a 2.500 euro

Kia Optima Plug-in Hybrid – incentivi da 1.500 a 2.500 euro

Audi A3 e-tron – incentivi da 1.500 a 2.500 euro

BMW Serie 5 530e – incentivi da 1.500 a 2.500 euro

Mini Countryman Cooper S E – incentivi da 1.500 a 2.500 euro

Mercedes GLC 350e – incenvitivi da 1.500 a 2.500 euro

Mitsubishi Outlander Phev – incentivi da 1.500 a 2.500 euro

Kia Niro Plug In – incentivi da 1.500 a 2.500 euro

BMW Active Tourer 225xe – incentivi da 1.500 a 2.500 euro

Kia Optima 2.0 Plug-in Hybrid – incentivi da 1.500 a 2.500 euro

Smart Fortwo EQ – incentivi da 4.000 a 6.000 euro

Volkswagen e-Golf – incentivi da 4.000 a 6.000 euro

Tesla Model 3 – incentivi da 4.000 a 6.000 euro

Renault Zoe – incentivi da 4.000 a 6.000 euro

Nissan Leaf – incentivi da 4.000 a 6.000 euro

Kia Soul Eco Electric – incentivi da 4.000 a 6.000 euro

Citroen C-Zero – incentivi da 4.000 a 6.000 euro

BMW i3 – incentivi da 4.000 a 6.000 euro

Hyundai Kona EV – incentivi da 4.000 a 6.000 euro

Volkswagen e-Up! – incentivi da 4.000 a 6.000 euro

Theresa May avverte: “Serve accordo o Brexit potrebbe scivolarci tra le dita”

“Poiché il parlamento ha chiarito che fermerà l’uscita del Regno Unito senza un accordo, ora abbiamo una scelta netta: lasciare l’Unione europea con un accordo o non andarcene affatto”. Lo ha detto la premier britannica Theresa May in una dichiarazione riportata dal Guardian. “Più tempo ci vuole – ha sottolineato la May – maggiore è il rischio che il Regno Unito non esca mai e la Brexit potrebbe scivolarci tra le dita”.

Ma sulla decisione vorrebbero intervenire anche i cittadini che, rivela il sondaggio BMG Research, hanno espresso un sostegno a un nuovo referendum che, finora, non era mai stato maggioritario. Del resto numerose voci in entrambi gli schieramenti hanno sempre sostenuto che un nuovo referendum potrebbe essere una scelta opportuna, a cominciare dal cancelliere dello scacchiere Philip Hammond e il ministro degli Esteri “ombra”, Emily Thornberry.

 

Celiachia: Dal 1° luglio in Emilia-Romagna basterà la tessera sanitaria per l’acquisto dei prodotti senza glutine

“Pane, pasta, farina, pizza, snack, biscotti, tutti rigorosamente senza glutine. A partire dal 1° luglio 2019, in Emilia-Romagna per i circa 18mila cittadini affetti da celiachia sarà più semplice ’fare la spesa’: da quella data, infatti, la Regione renderà operativo il nuovo percorso di approvvigionamento dei prodotti privi di glutine a carico del Servizio sanitario regionale, sostituendo l’attuale modalità di erogazione dei buoni cartacei con un corrispondente valore mensile (dai 56 ai 124 euro, a seconda del sesso e dell’età) in formato elettronico”. A darne notizia, un comunicato della Regione Emilia-Romagna.

“Per rifornirsi di questi alimenti – spiega la nota – basterà andare in qualsiasi farmacia o negozio convenzionato sul territorio regionale portando con sé la tessera sanitaria – Cns (Carta nazionale dei servizi) e lo specifico codice PIN celiachia: si potrà spendere il credito mensile in misura graduale, in base alle proprie esigenze. Una novità, questa, che verrà presto annunciata con una lettera dell’assessorato regionale alle Politiche per la salute, inviata dalle singole Ausl ai propri assistiti affetti da celiachia”.