Camaldoli porta allo scoperto l’esigenza di una nuova politica d’ispirazione cristiana.

Dobbiamo ragionare attorno alla necessità di un nuovo partito? Non è una risposta facile, lo sappiamo. Ma se scartiamo un’opzione, abbiamo anche il dovere di indicare un’alternativa. Stare fermi è inaccettabile.

 

 

La tre giorni di Camaldoli ha suscitato un interesse superiore alle attese. Molti gli spunti, le suggestioni, gli approfondimenti: il Codice, pensato in occasione di un incontro nel luglio del 1943 e poi pubblicato nel 1945, rappresenta un documento fondamentale per capire la formazione della classe dirigente cattolica e il ruolo da essa esercitato nel secondo dopoguerra. Influì sulle scelte dei costituenti, ma impresse il suo sigillo anche sull’ordinamento civile ed economico.

 

De Gasperi, dopo la vittoria del 18 aprile, imboccò decisamente le strada delle riforme. Lo aveva promesso in campagna elettorale e ne fece oggetto d’impegno all’indomani della vittoria. Con coerenza. E dentro questa coerenza possiamo cogliere il nesso che lega fin dall’inizio, attraverso Sergio Paronetto, il leader della Dc e i giovani intellettuali di Camaldoli. Il 16 settembre del 1948, in Consiglio dei ministri, Ezio Vanoni illustrava la bozza della sua riforma tributaria e De Gasperi confesserà, in quella circostanza, di aver ritrovato “la coerenza con il Vanoni del Gruppo di Camaldoli cinque anni fa” (v. G. Andreotti, 1948. L’anno dello scampato pericolo, Rizzoli 2005, p. 69). Dunque, il contributo offerto dal Codice non rimase lettera morta. Soprattutto innervò lo sforzo della generazione cattolica post fascista nella ricerca di una via autonoma sul terreno della trasformazione della società e dell’economia, per affrontare i problemi che, a detta di Karl Polanyi, il liberalismo e il socialismo avevano lasciato insoluti.

 

La Terza via dei cattolici si sviluppò in un quadro di apertura, anche internazionale, senza indugiare nella  supponenza di un certo provincialismo quale ultimo retaggio dell’autarchia mussoliniana. Ebbe, grazie appunto a Paronetto, ma anche a Vanoni e Saraceno, come pure a Ferrari Aggradi, la capacità di concepire il nuovo profilo della politica d’ispirazione cristiana dentro lo scenario del progressismo anglo-americano, così come intravisto nel welfare state del Regno Unito o nel New Deal dell’America rooseveltiana. Notoriamente l’esperienza della Tennessee Valley Authority (TVA) fornì le premesse per la creazione della Cassa del Mezzogiorno.

 

D’altronde il Codice di Camaldoli non volle rappresentare propriamente un codice, come fu quello di Malines scritto nel 1927, ma un testo che fosse…pretesto per ulteriori apporti, al di fuori di rigidi schemi ideologici. Doveva contare lo spirito e non la lettera di Camaldoli, tanto che Moro ne fece cenno in un Consiglio nazionale del partito, a ridosso della formazione del suo primo governo, per dare robustezza teorica all’operazione di rinnovamento che il centro-sinistra aveva in animo di promuovere. Pertanto, nel discorso di Moro l’incontro storico tra socialisti e cattolici implicava per la Dc il recupero della visione di Camaldoli. Poi sembrò meno evidente il debito con la suggerestione camaldolina. Tuttavia, anche la stagione della solidarietà nazionale riportò alla luce un’idea di cambiamento che in fondo si nutriva del concetto di “terza via” presente nel Codice.

 

Veniamo ai giorni nostri. Finora siamo stati obbligati a maneggiare i temi di Camaldoli con l’avvertenza di non poterli incarnare, per effetto della dispersione susseguente alla fine della Dc, nella cornice di una determinata “forma partito”. E però, va detto, stiamo largamente registrando l’usura di tale condizione psicologica e materiale.  Il Card. Zuppi ha citato De Rita per descrivere l’illusione di essere forti, specialmente in politica, senza avere una forza alle spalle. Ma spetta ai laici – ha fatto intendere – assumere un’iniziativa e una responsabilità, fermo restando che la Chiesa saprà valutare quanto di buono o di vacuo verrà eventualmente alla luce. La cultura di Camaldoli non può, ad ogni buon conto, esaurirsi in un respiro cosmico di ingenuità e rassegnazione, come se oramai il destino del cattolicesimo democratico appartenesse ai custodi di buone parole. Nella società c’è un carico di estremismo – politico, culturale, etico – che va depotenziato, recuperando e aggiornando l’insegnamento della migliore tradizione democratica, intessuta di principi e valori cristiani.

 

Giova ancora sottolineare che nella relazione del Card. Zuppi campeggia il termine “depolarizzante” per attestare, evidentemente, l’inclinazione naturale del cristiano nel suo rapporto con la complessità della politica. In effetti la malattia di questo tempo è proprio la polarizzazione della vita civile e democratica. Quando si rifiuta la dialettica tra destra e sinistra, anche arrivando a disertare le urne, è segno che una pubblica opinione matura considera forzata la classificazione entro questo schema predefinito. È vero, progresso e conservazione non sono la medesima cosa; ma il confine tra l’uno e l’altra non è rigido, essendo piuttosto dubbia, ad esempio, l’attribuzione del carattere di “progresso” a un trans-umanesimo senza più rispetto per l’uomo o di “conservazione” a un neocorporativismo economico-sociale implicante la rottura di una solidarietà a più ampio raggio. Dunque, che fare per essere depolarizzanti? Dobbiamo ragionare attorno alla necessità di un nuovo partito? Non è una risposta facile, lo sappiamo. Ma se scartiamo un’opzione, abbiamo anche il dovere di indicare un’alternativa. E oggi, stare fermi non è più un’alternativa. Si rischia solo di coprire il quieto vivere delle nostre coscienze.

 

 

 

N.B. Ieri il quotidiano “Avvenire”, nella pagina di cronaca politica, ha pubblicato il testo in una versione ridotta [Titolo – Fioroni: “La cultura di Camaldoli non è morta, ma i cattolici indichino l’alternativa alla polarizzazione”].