Come tante barche controcorrente. Francis Scott Fitzgerald e il sogno americano. Il ricordo dell’Osservatore Romano.

Oggi ricorrono i 125 anni dalla nascita del grande scrittore americano. La sua vena pessimistica la possiamo cogliere laddove viene ad irridere le ambizioni, piccole e grandi che siano. «A volte è più difficile privarsi di un dolore che di un piacere». L’articolo è pubblicato per gentile concessione del quotidiano ufficioso della Santa Sede.

 

Gabriele Nicolò

 

È possibile rivivere il passato? A tale interrogativo Gatsby non ha dubbi. “Sì certo che si può!”. E s’impegna in una promessa solenne: «Io metterò tutte le cose come erano prima», esclama. Si tratta di una promessa che, in realtà, tradisce una grande paura: quella di non poter ricomporre i frammenti del sogno (infranto) inseguito da tanti, forse da troppi: quello del cosiddetto “sogno americano”, nutrito di un accorato anelito alla libertà che sembra dileguarsi più è intenso lo sforzo per ghermirla.

 

Nel capolavoro di Francis Scott Fitzgerald (il 24 settembre ricorrono i 125 anni dalla nascita) il sogno del “grande” Gatsby si spezza nell’atto di riconquistare l’amata Daisy. Ma la finzione narrativa si carica di una spiccata valenza fattuale: è una generazione intera che s’identifica nel tentativo, tanto accanito quanto disperato, di riportare a sé la propria Daisy, ma molto spesso la storia procede nella direzione opposta di chi, a ritmo frenetico, corre per inseguire il proprio obiettivo. Nella celebre chiusa del romanzo si legge: «Così continuiamo a remare, barche controcorrente, risospinti senza posa nel passato». Gatsby sembra sempre sul punto di raggiungere il suo sogno, «ma non sapeva che il sogno era già alle sue spalle».

 

Quella a cui apparteneva Fitzgerald era la cosiddetta Lost generation (che, tra gli altri, annovera Hemingway e Dos Passos): un gruppo di scrittori nati verso la fine dell’Ottocento, che si stabilì in Francia negli anni Venti del secolo successivo, anni passati alla storia come quelli dell’età del jazz quando si manifestarono le utopie più ottimistiche e le delusioni più spietate. Tale fase viene immortalata dallo scrittore nel libro Tale of the Jazz Age: le voci e i gesti di quel mondo popolato da belli e dannati appaiono, nell’opera, come i riflessi di uno specchio deformante che apre ad una dimensione surreale, quasi magica. Acuta e corrosiva è la critica dello scrittore nei riguardi della cultura contemporanea, da lui sentita come «stantia» e «parruccona».

 

In questa temperie Fitzgerald affila progressivamente la lama dell’ironia fino ad eleggerla a tratto distintivo della sua narrativa. Basti pensare all’incipit di The Side of Paradise, in cui il padre di uno dei protagonisti del romanzo, Amory Blaine, viene presentato mentre «sonnecchia» (era una sua abitudine) sopra l’Enciclopedia britannica. Non a caso l’erudizione libresca era uno dei principali obiettivi polemici dello scrittore, formatosi, avendone letto avidamente i testi, su Oscar Wilde e Bernard Shaw, maestri del fine e illuminante sarcasmo. All’ironia è legato il pessimismo, alimentato dalla dolorosa consapevolezza che non esiste un modo per coprire il frustrante divario tra immaginazione e realtà, tra fantasia e quotidianità.

 

E la vena pessimistica viene ad irridere le ambizioni, piccole e grandi che siano. «A volte è più difficile privarsi di un dolore che di un piacere» scrive Fitzgerald in Tender is the Night: un’espressione che riveste un valore programmatico (una sorta di testamento spirituale) perché sintetizza la sua vibrante tensione ad investire e ad abbracciare il versante oscuro ed ostile della vita. A farne le spese è il sereno abbandono al versante solare dell’esistenza, per quanto sia salda la presa di coscienza che tale abbandono risulterà fugace.