Pubblichiamo stralci dal discorso “Dovete conoscere i fini del vostro lavoro” pronunciato da Olivetti a Ivrea nel giugno 1945 (non è noto il giorno). È stato pubblicato per la prima volta in La riforma politica e sociale di Adriano Olivetti (1942-1945), a cura di Davide Cadeddu (Roma, Quaderni della Fondazione Adriano Olivetti, 2006, pp. 62-67).
Adriano Olivetti
La guerra, in principio appena sentita, in principio sentita da noi soltanto come uno scandalo morale, come una cosa che ripugnava profondamente al nostro animo di uomini e di italiani, ma che non comportava gravi sacrifici, sopraggiunse. La durezza della guerra e il peggiorare delle condizioni di vita furono fenomeni lontani, ma intanto la fabbrica procedeva in una falsa direzione e in una falsa vita. Invece di guardare in fondo ai nostri problemi, noi e i nostri dirigenti vivevamo alla giornata, invece di guardare avanti nell’avvenire, impegnavamo le nostre capacità e la nostra intelligenza in sterili questioni che bisognava discutere di fronte a prefetti o a segretari federali ai quali nulla importava quello che era stata per noi, da lunghi anni, la nostra fatica e il nostro sogno: fare di questa fabbrica un mezzo migliore di vita e di comunanza sociale. Perché tale era l’insegnamento della nostra guida spirituale che ancora era tra noi, mio padre.
Le crisi del 25 luglio e dell’8 settembre accentuarono questa situazione. E poi si entra allora nel buio pauroso dei lunghi mesi dell’occupazione tedesca. È a me facile oggi il ritorno, solo reso triste dall’assenza di persone care, ma se vi è miracolo nel ritrovare ogni uomo, ogni macchina, ogni vetro, io ringrazio profondamente i Caduti, i 17 nostri compagni che in questo grande sforzo collettivo, in questa rinascita di popolo che è stata la lotta per la liberazione, hanno fatto sacrificio della loro vita affinché la fabbrica fosse salva e il paese dimostrasse al mondo che non poteva dividere la responsabilità dei nazisti e dei fascisti. Ciascuno di voi in questi lunghi mesi ha compiuto il suo dovere. Taluni di voi, e soprattutto quelli più in alto nella responsabilità, i dirigenti, ebbero difficili incarichi e fecero anche sacrificio di una cosa di cui ogni uomo deve essere gelosissimo: la stessa loro reputazione. Bisogna avere il coraggio di dire la verità, anche se talvolta è spiacevole. La direzione sembrò talvolta accomodante, talvolta fu costretta a scendere a compromessi, ma bisognava evitare a ogni costo che la fabbrica producesse materiale da guerra, bisognava evitare a ogni costo l’invio di forti masse di operai in Germania, bisognava evitare a ogni costo l’invio di macchinari in Germania, bisognava a ogni costo, negli ultimi giorni, evitare la distruzione dello stabilimento.
Questo risultato fu ottenuto e non valgono recriminazioni, non valgono i se e i ma. Ciascuno ebbe il suo compito. Per taluni fu di gloria, per taluni fu di rinuncia, per taluni di intransigenza, per taluni fu di arrendevolezza: fu necessario talvolta cedere sulla forma perché la sostanza rimanesse intatta. La storia degli urti, delle pressioni, dei ricatti, la difficoltà delle situazioni non è a tutti ben presente, e ai critici è facile ora giudicare una situazione che la Provvidenza ha risolto insperatamente bene. Se tuttavia l’onore è salvo, la Provvidenza ha voluto in voi operai segnare lo strumento di questo riscatto morale. I vostri scioperi arditi, le vostre dimostrazioni contro le atrocità tedesche, sono vostri grandi meriti, sono il segno della vostra forza, del vostro coraggio, il segno che un mondo è tramontato e che domani davvero, lentamente ma inesorabilmente, un nuovo mondo sorge. C’è in queste mie parole di ottimismo e di speranza una certezza, una fede che non può essere oscurata dalle mille ombre di una situazione tremendamente difficile. L’Italia è nella situazione della Germania del 1918: c’è stata una catastrofe, una guerra perduta, c’è una svalutazione monetaria che non sembra aver fine, c’è una crisi economica. Se non arriva il carbone dai porti italiani o dalle strade ferrate dell’Europa centrale, fra pochi mesi tutto il paese è gettato nella disoccupazione.
C’è una crisi di civiltà, c’è una crisi sociale, c’è una crisi politica. L’ingranaggio della società che è stato rotto nell’agosto 1914 non si è più potuto ricostruire, non ha mai più funzionato, e indietro non si torna. Allora, amici, vorrete domandarmi: dove va la fabbrica in questo mondo? Cosa è la fabbrica nel mondo di domani? Come possiamo contribuire col nostro sforzo e col nostro lavoro a costruire quel mondo migliore che anni terribili di desolazione, di tormenti, di disastri, di distruzione, di massacri, chiedono all’intelletto e al cuore di tutti, affinché giorni così tristi né i nostri figli né i figli dei nostri figli e molte generazioni ancora dovranno, una seconda volta, affrontare?
Ardua è la mia risposta e arduo il cammino per una nuova meta. Non pretendo oggi di rispondere esaurientemente all’interrogativo. Ma questo sta nel cuore di tutti voi, come una speranza che illumina la vostra giornata di lavoro, con una certezza che non renda vani i sacrifici già fatti e quelli che ancora sono sulla vostra strada.
Cosa faremo, cosa faremo? Tutto si riassume in un solo pensiero, in un solo insegnamento: saremo condotti da valori spirituali. Questi sono valori eterni, seguendo questi i beni materiali sorgeranno da sé senza che noi li ricerchiamo.
Nel Vangelo di Matteo questo pensiero è espresso: «Non siate dunque con ansietà solleciti dicendo – Che mangeremo, che berremo o di che ci vestiremo? – Perché il Padre vostro giusto sa che avete bisogno di tutte queste cose. Ma cercate prima il Regno e la giustizia di Dio e tutte queste cose vi saranno sopraggiunte».
Fonte: L’Osservatore Romano – 13 agosto 2022
(Qui riproposto per gentile concessione)