Sembrano lontani i vari casi Evergrande, Shimao&co. Eppure negli ultimi mesi sono fioccati i downgrade di società legate al comparto immobiliare. Quasi un centinaio in poco meno di nove mesi.
Gianluca Zapponini
Il gigante dormiva, non era morto. In Cina la crisi del mattone non è mai finita. A volte è esplosa, altre volte no e i fallimenti veri o presunti della varie Evergrande, Shimao, sono lì a testimoniarlo. Il problema, però non è risolto. Due anni di pandemia e di altrettanta strategia zero-Covid, più dannosa che altro, hanno spinto il Dragone a battere di nuovo la fiacca, avviandosi a chiudere il 2022 con un Pil a +4,5%, al di sotto delle previsioni ufficiali del governo. Naturale, dunque, che il comparto immobiliare, che vale il 25% del Pil cinese, continui ad annaspare.
Le sirene sono tornate a suonare. La prova è nell’esponenziale aumento dei declassamenti del debito corporate legato alle imprese del mattone cinese, che nei giorni scorsi hanno toccato i massimi dal 2009. Basti solo pensare che l’agenzia Moody’s ha dichiarato di aver emesso 91 downgrade solo negli ultimi nove mesi, all’indirizzo di società immobiliari cinesi. Un declassamento su larga scala e per questo strutturale, un po’ come se l’intero mattone della Repubblica popolare fosse stato declassato.
Addirittura, le obbligazioni corporate di alcuni gruppi cinesi hanno ricevuto più di un downgrade. Ad oggi nel gradino B3 negative o inferiore, dunque spazzatura, si posizionano i debiti di Evergrande, Groenlandia, Agile Group, Sunac, Logan, Kaisa e R&F. “Il nostro vasto downgrade riflette l’attuale ambiente operativo molto difficile per gli sviluppatori immobiliari cinesi, combinato con un ambiente di finanziamento ristretto per tutti loro”, ha affermato Kelly Chen, vicepresidente e analista senior di Moody’s Investors Service. “Abbiamo visto tutti che le vendite contrattate sono state piuttosto deboli e non abbiamo visto un rimbalzo sui listini molto significativo in risposta alle politiche di supporto”, ha aggiunto l’esperto, in riferimento al piano di stimoli messo a punto dal governo cinese per risollevare l’economia.
Che sconta anche un calo generalizzato delle entrate fiscali. Lockdown vuol dire meno consumi e meno transazioni, di qualsiasi natura. E fuga dei capitali vuol dire meno tasse versate all’erario del Paese ospitante oltre al venir meno dei soldi prestati in cambio di debito cinese. Insomma, la Cina è a secco. “L’ultima ondata di Omicron e i blocchi diffusi da metà marzo nelle principali metropoli hanno portato a una forte contrazione delle entrate del governo”, ha affermato Ting Lu, capo economista cinese di Nomura.
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