Dibattito | È possibile legittimare il regionalismo differenziato?

Un convegno ad Alcamo, promosso dal Pd di Trapani, ha legato il progetto di regionalismo differenziato alla costruzione di strategie macroregionali, anche oltre i confini nazionali.

Ad iniziativa del giovane segretario provinciale del PD di Trapani, Domenico Venuti, si è tenuto nei giorni scorsi ad Alcamo un interessante convegno sul Regionalismo differenziato in cui la tesi di fondo emersa tra i relatori chiamati a dibattere il tema (gli onn. Barbagallo, Piro, Safina, il sottoscritto e, naturalmente, Venuti) non ha oscillato tra lapprovazione incondizionata della riforma Calderolied il suo netto rifiuto ma si è attestata su una posizione più interessante ed equilibrata. Il regionalismo differenziato –è stato detto- non è di per sé una risposta sbagliata alla domanda di riforma del regionalismo storico. Ma sbagliato è il come tale modello di istituzionalismo asimmetrico (previsto dallart. 116, 3° comma, Cost.) si è voluto attuare finora da parte di alcune Regioni e del Governo nazionale.

A partire dalle famose leggi del Veneto nn. 15 e 16 del 2014 (con le quali si ponevano quesiti referendari del tipo: Vuoi che una percentuale non inferiore allottanta per cento dei tributi pagati annualmente dai cittadini veneti allamministrazione centrale venga utilizzata nel territorio regionale in termini di beni e servizi?; Vuoi che la Regione mantenga almeno lottanta per cento dei tributi riscossi nel territorio regionale?;etc.) che miravano ad utilizzare la maggiore  autonomia  per consentire alla Regione (fra le più ricche!) di aumentare i propri poteri economici puntando a recuperare e mantenere per sé il surplus di gettito fiscale determinato dal reddito prodotto nel proprio territorio grazie agli investimenti che lintero Paese vi aveva fatto in tempi diversi. Per venire alla narrazione che giustificava la richiesta dellampliamento dei poteri regionali con ragioni di presunta efficienza ed economicità di gestione delle funzioni e dei servizi connessi alle materie richieste senza, però, mai indicare criteri e parametri per verificare la corrispondenza alla realtà delle situazioni organizzative o dei dati di bilancio. Per arrivare, infine, al ddl Calderoliche afferma che per attribuire alle Regioni a statuto ordinario ulteriori forme e condizioni particolari di autonomiarelative a materie o ambito di materie riferibili ai diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale è necessario determinare i relativi livelli essenziali delle prestazioni(LEP) per favorire unequa ed efficiente allocazione delle risorse e il pieno superamento dei divari territoriali nel godimento di dette prestazioni. Soltanto che poi collega i LEP ed i relativi costi e fabbisogni standard, per la loro coperturafinanziaria, alla legge dello Stato legata a sua volta al principio di invarianza di bilancio. Il che significa che, così impostata, la pregiudizialità dei LEP rispetto al trasferimento  delle funzioni si fermerà alla loro semplice determinazione rinviando sine die la loro effettiva realizzazione.

A ciò bisogna, inoltre, aggiungere che il ddl Calderolimanca completamente di delineare quali siano i confinidi quello che le Regioni possono chiedere: se tutte le materie tout court o soltanto specifiche funzioni sulla base di motivate ragioni di contesto per ciascuna materia e non già di generiche dichiarazioni di maggiore efficienza delle Regioni(F. Cerniglia, Autonomia differenziata in Il Sole 24 Ore del 31 maggio 2023). Con la conseguenza che, se una Regione come ha fatto il Veneto rivendicasse il riconoscimento di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia per tutte le venti materie di legislazione concorrente, verrebbe travolto il disegno costituzionale del regionalismo perché le varie materie diventerebbero tutte di potestà legislativa esclusiva: dello Stato o delle Regioni e quindi trasformerebbero lordinamento da regionale in federale. Rompendo così lunità giuridica ed economica della Repubblica. E tutto ciò proprio quando a più di ventanni dalla riforma del titolo V della Costituzione, alcune delle materie assegnate pure alla competenza delle Regioni -come le grandi reti di trasporto e di navigazione, la produzione, (il) trasporto e (la) distribuzione nazionale dellenergiae il coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario– andrebbero riportate sotto lombrello esclusivo della competenza dello Stato.

Ed, in ultimo, bisogna ricordare il ruolo che questo disegno di legge governativo riserva al Parlamento sia in ordine alla determinazione dei LEP e dei relativi costi e fabbisogni standard che al procedimento di approvazione delle intesefra Stato e Regioni. In entrambi i casi si tratta di procedure confuse che alla fine, però, ruotano intorno al rapporto verticistico fra gli esecutivi dello Stato e delle Regioni. Ignorando le Camere, relegate al ruolo marginale di organismi consultivi che esprimono un parere non vincolante sullo schema di intesa preliminare fra Stato e Regione e quando sono chiamate ad approvare la legge non hanno alcun potere di emendamento:devono votare si o no e basta! Così come non possono fare altro che esprimere un parere sui LEP elaborati da una Commissione tecnica e determinati con uno o più decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri. Per non dire, infine, della Commissione paritetica Stato-Regioni, costituita interamente da rappresentanti dei governi nazionale e regionali, che avrà il potere di determinare le risorse umane, strumentali e finanziarie necessarie allesercizio da parte delle Regioni delle ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia. Insomma, un colpo di spugna a tutte le garanzie e tutele costituzionali ed un vulnus irreparabile alla democrazia.

Evidenziato e stigmatizzato con nettezza questo falso approccio, un pò tutti i relatori hanno invece sottolineato che il regionalismo differenziato potrebbe rappresentare una ben diversa prospettiva. Addirittura, secondo alcuni, lo strumento per realizzare un regionalismo moderno la cui finalità non è certamente quella di creare diseguaglianze o disparità di trattamento tra i cittadini ma di valorizzare le differenze dei territori e delle comunità per concorrere al meglio alla costruzione dellunità repubblicana. Non solo. Ma potrebbe addirittura costituire, secondo il  segretario Venuti, lavvio della grande riforma dello Stato che il nostro Paese attende dalla legislazione costituzionale del 1999/2001 e che costituirebbe anche un forte impulso alla trasformazione dellEuropa da Unione di Stati in vera Comunità di Popoli. In termini espliciti, secondo la mia interpretazione, funzionalizzando in sostanza il regionalismo differenziato alla costruzione di macroregioni nazionali e, soprattutto, europee.

Perché è bene sapere che il regionalismo italiano ha dovuto subire fin dal suo ingresso in Costituzione (art. 131) una costrizione in confini impropri, seppure tradizionali, dettati dalla necessità di evitare di rivivere pericolose memorie storiche faticosamente superate nel tempo e di accogliere le richieste di ispirazione populista formulate dai partiti che in Assemblea costituente invocavano Regioni ancora più piccole, di quelle storico-tradizionali di cui alle pubblicazioni statistiche, per farle corrispondere agli interessi dagli stessi rappresentati. Il che implica chiaramente che la possibilità (ex art. 116, 3° comma, cost.) di attribuire alle Regioni ordinarie ulteriori forme e condizioni particolari di autonomiava connessa non ad una qualsiasi generica motivazione ma ad una precisa prospettiva di ampliamento territoriale per farne uno strumento di riattualizzazione delle funzioni, delle reti e dei servizi che le Regioni riterranno di dover gestire in comune con altre Regioni (art. 117, 8° comma, cost.) e, contestualmente, ad un innovativo principio di coesione geo-politica per farne una modalità di superamento dei confini fra gli Stati-membrial fine di rendere più efficace lazione che veda come protagoniste aree territoriali contigue, accomunate da problematiche simili.

In conclusione, lunica ragione per legittimare il regionalismo differenziato, secondo le interessanti considerazioni emerse da questo convegno, è quella di finalizzarlo alla costruzione di strategie macroregionali frutto di iniziative innovative di concertazione, collaborazione ed integrazione, che non si fermino però ai confini dei territori del nostro spazio nazionale ma coinvolgano le aree limitrofe dei Paesi viciniori che condividono gli stessi problemi, ad esempio, ambientali e le stesse opportunità di sviluppo. Come dimostrano le prime esperienze macroregionali (la Adriatico-Jonica e la Alpina, per non dire di una terza iniziativa del Mediterraneo, finora rimasta però sulla carta) che hanno viste interessate alcune Regioni italiane. Esperienze che, se pure non costruite come un nuovo livello istituzionale, si configurano come strategie di governance (ex Risoluzione del Parlamento europeo A7-0219/2012) per garantire la partecipazione delle autorità regionali e locali alle politiche di cooperazione europea, formando una sorta di rete dove annodare le politiche che costituiscono i settori portanti di una crescita economica intelligente e sostenibile.