I ripetuti richiami del Censis sull’impoverimento culturale della politica fanno il paio con la ricerca pubblicata nel 2011 (ma sempre attuale) da Tullio De Mauro, “principe dei linguisti” ed ex Ministro dell’Istruzione, in una delle sue ultime ricerche sul patrimonio linguistico degli italiani.
Richiami, osservazioni e analisi sociologiche che sono state rapidamente metabolizzate nel nulla, passate quasi inosservate e inascoltate, come in una sorta di nemesi che conferma l’assioma iniziale.
Il decadimento culturale riguarda i contenuti e i toni del linguaggio politico, non certo elevati sul piano dell’etica ed eloquentemente negativi circa le modalità espressive e di comunicazione.
Sono ben noti i siparietti televisivi e le interviste a sorpresa dei parlamentari all’uscita della Camera o del Senato: mi è rimasta impressa la definizione del Darfur come ‘un tipo di cioccolata’ e la definizione degli ‘esodati’ come il risultato della bollitura delle uova sode.
Forse però le osservazioni ripetute negli ultimi anni dal Censis riguardano soprattutto l’assenza disarmante di proposte politiche sostenute da contenuti culturali nobilitanti. Dopo il tramonto delle ideologie e dei loro retaggi bene o male radicati nella tradizione e nella storia siamo in presenza di una cultura politica ibrida e indefinita, senza capo né coda, senza sostanza e senza meta, priva di una progettualità non dico di lunga ma almeno di media gittata.
Più che discorsi sono slogan, più che parole sensate si tratta di affabulazioni ripetitive e retoriche.
Tanto che un sociologo come Sabino Acquaviva attribuiva alla politica la minimale gestione dell’ovvio e del banale.
Sul versante sociale le cose non vanno poi tanto meglio, a conferma del fatto che i rappresentati esprimono una classe politica speculare al diffuso analfabetismo culturale di cui sono i rappresentanti.
Dalla ricerca di Tullio De Mauro era emerso lo spaccato di una società dove il 70% degli italiani è affetto da una sorta di analfabetismo di ritorno: questa è infatti la percentuale di coloro che non sono in grado di leggere e comprendere un testo definito “di media difficoltà”.
Non credo che la situazione, a pochi anni di distanza e con un ricambio generazionale e culturale così evidente della classe dirigente del Paese, sia ad oggi migliore.
Si discetta spesso sul gap tra Paese legale e Paese reale ma in questo campo c’è quasi una specie di sovrapposizione speculare: la società esprime i propri rappresentanti in un contesto di deprivazione culturale tale che il passaggio dai rappresentati ai rappresentanti non sortisce salti qualitativi né esprime eccellenze che si discostino per merito dalla mediocrità prevalente.
Basti pensare ai risultati scolastici (Invalsi docet) e ai passatempi prediletti.
La lettura è un esercizio di cui ci si priva sempre più volentieri: pare infatti che costi fatica.
Molto più semplice metabolizzare i linguaggi televisivi, praticare la navigazione informatica, utilizzare comunicazioni brevi e sincopate come le mail o gli sms.
Più che parlare si “briffa” e presto ci saluteremo con un bit.
Perché c’è differenza tra cultura del tempo breve e cultura lentamente metabolizzata.
E il dilagare della violenza esprime una vistosa carenza di capacità esplicativa e persuasiva, di dialogo, comprensione, accorciando lo spazio che separa l’ignoranza dalla grettezza, la superficialità dal pregiudizio.
Senza contare i pericoli della cyber aggressione (l’Osservatorio nazionale sulla sicurezza riferisce di un aumento di oltre il 200% dei casi di intercettazione, spionaggio e violazione della privacy negli ultimi anni) e – di converso – della omologazione culturale e dell’assenza di un controllo delle informazioni che circolano in rete e vengono disseminate in una società puntilliforme, spesso in nome di una millantata trasparenza che di fatto mette le manette ai polsi delle relazioni sociali.
Ma che dialogo può esistere in una società del monologo collettivo?
Colpa della scuola? Può darsi. Di colpe la scuola ne ha già tante e può reggere anche questa.
Il problema è anche di tipo motivazionale: manca l’interesse ad apprendere, la capacità di ascoltare, di reggere un’interlocuzione basata su argomenti profondi e sostenuta da toni di moderazione e di rispetto.
E poi viene a scemare il gusto della ricerca, dell’approfondimento, il piacere di leggere i capolavori della letteratura di ogni tempo, classici intramontabili e più educativi di un qualsiasi manuale di istruzioni per l’uso, di un abbecedario sul bon ton, di una ricerca sul web.
Inconsapevolmente ci stiamo abituando a nuovi alfabeti, a terminologie ubiquitarie adatte ad ogni circostanza, ad un linguaggio orfano di parole appropriate che scompaiono dal vocabolario, sostituite da neologismi onomatopeici, dalle evanescenze del ‘coso’ e della ‘cosa’, ‘nel senso’ e ‘cioè’, dei banali luoghi comuni scaduti e riciclati.
Il problema della formazione e della codificazione di una cultura prevalente condivisa negli anni a venire consisterà nella graduale sostituzione dell’alfabetizzazione costruita e sedimentata attraverso il linguaggio tramandato con l’alfabetizzazione digitale il che comporterà nuovi codici espressivi, nuove simbologie e – quel che più conta – nuovi contenuti.
Una rivoluzione dagli esiti imprevedibili assai più rilevante di quanto fu l’invenzione della stampa: mentre questa favorì il consolidamento della cultura e la sua conservazione attraverso i libri (si pensi alle biblioteche) non possiamo prevedere in quali forme, modi e contesti i nuovi alfabeti saranno custoditi e quali saranno le modalità di accesso e di interscambio poiché il virtuale non essendo tangibile può dar luogo ad una frammentazione espressiva certamente aperta e facilmente fruibile ma forse sovraesposta al pericolo di una compromissione della democrazia delle parole e dei linguaggi, per come la conosciamo attraverso la cultura classica tramandata.
Se un rischio si paventa è quello che l’alfabeto digitale produca una generazione di analfabeti sprovvisti di memoria condivisa e – quindi – proiettati in una galassia semantica e simbolica che li allontana dalla storia.
Intanto le immagini sostituiscono le parole e – come acutamente osservava Giovanni Sartori – l’homo videns sta prendendo il posto dell’homo sapiens. Il popolo dei lettori di un tempo si sta trasformando in un caravanserraglio di internauti. E quel 70% di persone che faticano a decodificare un testo la dice lunga sulla sindrome da incomunicabilità del nostro tempo.