Sebbene queste ore e giorni siano quelli tragici in cui a parlare tra Israele e Palestina sono ancora le armi, e dunque la priorità è costituita dalla dimensione umanitaria per limitare le conseguenze sui civili, e dalla ricerca di un cessate il fuoco il più presto possibile, occorre guardare al dopo anche per evitare il rischio tutt’altro che remoto, di un allargamento del conflitto, proprio mentre Ovest e Est sono già in guerra in Europa.
Innanzitutto deve essere viva la convinzione che, come osservato dal patriarca di Gerusalemme, cardinal Pierbattista Pizzaballa, i due popoli sono destinati a fare i conti ognuno con l’esistenza dell’altro, sebbene questo ricorso alla violenza in forme così estreme, ricorso riacceso dall’attacco indiscriminato di Hamas a Israele la settimana scorsa, allontani e ritardi nuovamente la prospettiva del dialogo.
Anche perché, se è vero che l’Occidente si è stretto compatto attorno a Israele in seguito alla orribile strage perpetrata da Hamas la scorsa settimana in zone di Israele vicine al confine con Gaza, nel contempo però sta emergendo un fatto inedito: che la solidarietà e il sostegno dell’Occidente, per quanto essenziali, non sembrano più sufficienti, da soli, a garantire la sicurezza di Israele.
Le guerre nel Grande Medio Oriente degli ultimi trent’anni non hanno dato l’esito atteso dal loro principale promotore, gli Stati Uniti, ma hanno prodotto addirittura la fuoriuscita di alcuni stati chiave di quell’area, come Iraq e Afghanistan, dalla sfera di influenza occidentale. Altri, come l’Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti, hanno intrapreso percorsi in autonomia, pur senza fratture con l’Occidente, che li hanno condotti a divenire dal prossimo primo gennaio membri effettivi del Coordinamento BRICS.
In questa luce appare difficile intravedere come effetto dell’attacco terroristico di Hamas, uno stravolgimento della linea dell’Arabia Saudita nei confronti di Israele. Perché già prima dei colloqui con Israele per la normalizzazione delle relazioni sullo schema degli accordi di Abramo, quei contatti erano intepretati da Riyad come propedeutici alla soluzione a due stati tra Israele e Palestina. Come lo era, a ben vedere, anche la controversa intenzione americana di trasferire la propria ambasciata a Gerusalemme, perché contestualmente la parte Est della città santa per le tre grandi religioni monoteiste viene considerata capitale del futuro stato di Palestina.
Analogamente il punto di vista occidentale rischia di sottostimare la portata del cambio nelle relazioni tra Arabia Saudita e Iran, propiziata dalla paziente iniziativa diplomatica cinese, e rafforzata dalla comune adesione delle due potenze del Golfo Persico ai BRICS. Tali fattori sembrano dar forza alla tesi, al di là di sempre possibili nuovi motivi di attrito, che l’Arabia Saudita non rinuncerà a porre delle condizioni per riprendere la strada del dialogo con Israele e allo stesso tempo che l’Iran viene disincentivato dall’assumere una posizione più estremista di quella che già esprime sul conflitto israelo-palestinese, pur essendo completamente schierato dalla parte palestinese e addirittura dando un sostegno al movimento terroristico di Hamas.
Su richiesta dell’Arabia Saudita mercoledì prossimo a Gedda si terrà una riunione urgente del comitato esecutivo dell’Organizzazione della Cooperazione Islamica sulla situazione dei civili a Gaza. È l’organizzazione che rappresenta circa due miliardi di musulmani nei Paesi aderenti, che fa sentire la propria voce. Cina e Russia rilanciano la prospettiva della soluzione a due stati, che peraltro è quella ufficialmente adottata dalle Nazioni Unite. E diversi altri attori di rilevanza globale, come stati singoli o come organizzazioni internazionali, si muovono nella medesima prospettiva, e incidono nel dibattito globale sulla ricerca di una soluzione diplomatica per il conflitto israelo-palestinese. Sono le nuove dinamiche della multipolarità, che si presentano in modo inedito di fronte a questa guerra, e delle quali occorre tener conto in modo che non appena, speriamo il più presto possibile, verranno messe a tacere le armi, si possa intraprendere come Paese e come Unione Europea l’iniziativa più appropriata per la pace.