Eppure in Sicilia qualcosa si muove e incrocia la riscoperta del Mediterraneo

Azioni popolari contro l’autonomia differenziata - ultimamente a Caltanissetta - e analisi sofisticate per un nuovo meridionalismo. Il Sud non può che mirare a una ‘salvezza’ che coinvolga e unisca tutti i territori.

 

L’ultimo schiaffone è stato la decisione della Federazione italiana gioco calcio (Figc) di escludere lo stadio “Renzo Barbera” di Palermo, per inadeguatezza tecnica, dalle dieci sedi di gioco indicate per lo svolgimento degli ‘Europei’ di calcio del 2032, nell’ipotesi che il campionato venisse dall’Uefa assegnato all’Italia e non alla Turchia. Il malrovescio è stato ancora più sonoro di quel che emerge a primo acchito perché maturato negli stessi giorni in cui organi istituzionali ed opinione pubblica espressa dai “giornaloni” difendevano e giustificavano la scelta dei comuni di Firenze e Venezia di inserire i loro stadi nel PNRR affinché con i soldi europei fosse finanziato il loro ammodernamento ed adeguamento agli standard. Cosa che, naturalmente, tenuto conto dei circa dieci anni di distanza dall’evento europeo, si sarebbe potuta fare benissimo, con fondi nazionali, anche per l’impianto della capitale siciliana e così inserirlo tra le sedi prescelte e non mortificare l’amor proprio siciliano. Ma le solite logiche nord-centriche dei poteri decisionali lo hanno sbrigativamente escluso. Convinti che, come sempre, i siciliani avrebbero sì strepitato un poco ma alla fine si sarebbero facilmente acquetati. Ed, invece, sorpresa! Peraltro, con riferimento anche a quistioni molto più rilevanti che hanno indotto il popolo siciliano a dare finalmente un segnale forte e qualificato nel senso di non volere stare più a questo gioco del “partito unico del Nord”. E così, quasi contemporaneamente, sono stati prodotti due eventi che per spessore e contenuti possono costituire delle pietre miliari per un futuro di riscatto della Sicilia dalla condizione di marginalità cui finora è stata costantemente costretta.

 

Come vedremo subito, si tratta di avvenimenti completamente diversi: uno popolare, l’altro culturale che danno entrambi, però, la sensazione che la Sicilia abbia cominciato a svegliarsi dal suo atavico torpore e voglia farsi sentire nel contesto nel quale si decidono  le politiche  che la riguardano e si definiscono  gli indirizzi  con i quali si governa l’intero Paese.

 

Contro una di queste: l’autonomia differenziata, considerata “l’ultimo scippo che intende perpetrare il ministro Calderoli nei confronti del Mezzogiorno”, il popolo siciliano – guidato da un comitato composto da Cgil e Uil Sicilia, Legacoop, Anpi, Ali Autonomie, Arci e Uisp – si è mobilitato scendendo, nel fine settimana, in piazza a Caltanissetta per protestare contro un provvedimento che, se approvato, isolerà ancora di più la Sicilia, allontanandola dal resto del Paese e dall’Europa. “Diritti fondamentali come quelli alla salute, all’istruzione, alla mobilità – hanno sottolineato gli organizzatori – rischiano di essere pesantemente compromessi”, poiché come già mostrano i numeri della migrazione sanitaria o quelli del tempo pieno nella scuola primaria si registrano notevoli ritardi rispetto alle equivalenti condizioni del Centro-Nord. Basti pensare che dalla Sicilia si trasferiscono ogni anno per spesa sanitaria alle strutture del Nord 250 milioni di euro e che del tempo pieno nella scuola primaria ne fruisce solo il 10% dei bambini siciliani contro il 50% di quelli del Nord. Non solo: ma si accrescerà anche il divario fra i territori. Contravvenendo così in modo clamoroso alle stesse prescrizioni dell’Unione Europea che con il finanziamento del PNRR ha anche indicato in modo inequivoco all’Italia  di colmare i profondi divari già esistenti tra le diverse aree geografiche del Paese. 

 

Il governo, invece, hanno evidenziato i manifestanti, di tutto ciò non tiene minimamente conto e, muovendosi in direzione opposta, provocherà alla fine “l’allentamento dei vincoli di solidarietà nazionale” e “la nascita di un circuito vizioso di cui pagheranno alto il prezzo le regioni meridionali ma anche lo Stato nel suo complesso”. Per queste motivate ragioni, poi, con una decisione addirittura più significativa della stessa indizione della partecipatissima manifestazione di protesta di Caltanissetta, la Cgil ha lanciato una campagna di raccolta-firme per chiedere al presidente della Regione di ritirare la propria adesione, espressa in sede di Conferenza Unificata, al progetto di autonomia differenziata del governo. Come prevedibile il presidente Renato Schifani ha risposto con un invito “ad andare oltre la demagogia”. Il fatto però che finora non abbia accettato un confronto pubblico con le forze sociali sulle ragioni che lo hanno spinto a dare il proprio assenso al disegno di legge Calderoli la dice lunga sulla mancanza di motivazioni sostenibili che stanno alla base della sua scelta ed anzi confermano implicitamente anche il sostegno all’ultima idea dell’ineffabile ministro leghista di finanziare i Livelli essenziali delle prestazioni (Lep) con le risorse residue del Fondo di sviluppo e coesione così penalizzando due volte il Mezzogiorno e le sue Autonomie locali che si vedrebbero private del principale finanziamento destinato a ridurne il divario con il resto d’Italia. Insomma, una subalternità sconcertante al diktat della maggioranza nordista che guida il Paese che, però, questa volta finalmente ha suscitato un rigurgito di bile nel popolo siciliano e lo ha indotto a prendere l’iniziativa.

 

Così come, venendo al secondo episodio che segnala questa ritrovata reattività siciliana, ha  fatto un gruppo di intellettuali e studiosi della storia dello sviluppo del Paese che, accanto alle analisi di tipo “qualitativo”, ha introdotto da qualche tempo un approccio “quantitativo” alle problematiche del Mezzogiorno e si è sforzato di delinearne le politiche di sviluppo in termini di “sistema” e non di interessi e di territori isolati. Il Sud, infatti, è stato giustamente sottolineato, o si salverà tutto insieme o singolarmente le varie regioni e territori che lo costituiscono vedranno aggravarsi la loro  condizione di disagio e di ritardo.

 

Oggi i risultati di questo innovativo metodo di studio e di approfondimento cominciano ad essere  sempre più ampiamente condivisi. Lo dimostra il bel volume dell’economista palermitano Pietro Massimo Busetta, La rana e lo scorpione. Ripensare il Sud per non essere né emigranti né briganti (Rubbettino, 18€), anch’esso presentato a Caltanissetta a cura della Fondazione “Sicana” della SicilBanca nelle stesse ore in cui si svolgeva la manifestazione sindacale di cui dicevamo, che costituisce una sorta di appello alla mobilitazione civile e democratica proprio a partire dal rilevato divario quantitativo che si registra nel Paese tra Sud e Nord. Ma non è su questo gap economico che Busetta pone principalmente la sua attenzione. Piuttosto egli fa riferimento alla circostanza che il Mezzogiorno costituisce il 40% del territorio nazionale ed i suoi più di 20 milioni di abitanti sono oltre 33% dell’intera popolazione italiana. Elementi questi che ne cambiano la connotazione. Infatti, se il Mezzogiorno fosse uno Stato, sarebbe il sesto Paese dell’Unione, per dimensione demografica, dopo Germania, Francia e Italia del Nord, che sarebbe ridimensionata ovviamente a 40 milioni e diventerebbe quarta dopo la Spagna. Poi verrebbe la Polonia che sarebbe con i suoi 38 milioni la quinta nazione e quindi il Mezzogiorno che sarebbe il sesto Paese con 20 milioni di abitanti prima della Romania con 19 milioni ed i Paesi Bassi con 17,5. A seguire tutti gli altri 19 Paesi europei, molti dei quali più piccoli della sola Sicilia. 

 

In altri termini, sulla base di questi dati, Busetta fa emergere chiaramente quale sia il deficit identitario e politico di quest’area che, pur così rilevante, non riesce ad avere adeguata attenzione all’interno dello Stato italiano mentre potrebbe essere facilmente collegata in via diretta all’Unione europea e spuntare condizioni più vantaggiose per tutte le sue comunità  trattando direttamente con gli organi europei e quelli internazionali. Ma non è in questa prospettiva ultimamente secessionista che il nuovo meridionalismo intende utilizzare i significativi dati quantitativi cui abbiamo fatto cenno. Esso vuole solo evidenziare che questa realtà così connotata costituisce una piattaforma naturale nel mar Mediterraneo ritornato ad essere, dopo diversi secoli, centrale rispetto allo sviluppo economico del mondo. Basti pensare che in esso  oggi si svolge un volume di  traffico-merci tra i più importanti del Pianeta. Come evidenzia sempre Busetta “il 20 per cento del commercio mondiale passa da questo mare”. “Per andare in Cina o in India, in Corea o a Taiwan, in Giappone o in Israele, negli Emirati o in Arabia Saudita devi passare attraverso questo mare”. Non solo. Ma le sue sponde costituiscono inoltre una sede privilegiata di scambi, di trasferimento di culture, di orizzonti nuovi di vita non solo per gli emigranti dai Paesi medio-orientali ed africani ma anche per noi europei alla ricerca di spazi logistici e fonti energetiche per sostenere uno sviluppo che o diventa sostenibile o finirà per fare implodere l’Europa. 

 

Ma non è solo circoscrivibile a questi profili la prospettiva politica della riscoperta del Mediterraneo! Essa riguarda anche e soprattutto la funzione di pace che esso può assumere se il suo equilibrio ritorna ad essere dipendente dai Paesi che vi si affacciano e le grandi potenze ‘straniere’ che in atto vi dettano legge sono indotte a rispettarne le volontà di solidarietà e cooperazione. Aiutate e supportate in questa direzione da un ritrovato ruolo mediterraneo dell’Europa che ancora però deve essere costruito e che necessita in maniera indispensabile di una ricercata ed urgente via  unitaria che ne sappia  ascoltare la sua vocazione ed interpretare la sua volontà effettiva. E questa sarebbe la novità più rilevante che il riscatto del Mezzogiorno porta con sé. Bene ha fatto, allora, Pietro Busetta a collocarla al centro della sua fatica meridionalistica perché non è più una partita domestica quella che si gioca in Sicilia e al Sud ma un sfida nazionale ed europea. Sta tutto qui, insomma, il valore delle analisi che opportunamente non si attardano più a rivendicare provvedimenti, atti, azioni, programmi e quant’altro di solito accompagna formalmente finanziamenti ed interventi statali vuoti di reali contenuti innovativi e piuttosto si sforzano di delineare le politiche necessarie al cambiamento con i relativi tempi di  implementazione. Sapendo che il problema centrale resta comunque sempre quello dei soggetti che dovranno guidare questo cambiamento per cui è più che valido l’appello lanciato da Busetta “ai liberi e forti” di sturziana memoria. In conclusione, come ha scritto Massimo Villone nella sua Prefazione, questo non è un libro nato per una rilassante lettura sotto l’ombrellone in riva al mare. Ma una vera e propria chiamata alle armi per una nuova classe dirigente che si impegni per  una vera battaglia meridionalistica. 

Ecco perché esso, assieme con il primo ‘sciopero’ popolare contro il regionalismo differenziato in Sicilia,  costituisce un evento degno di essere segnalato all’attenzione dei nostri lettori.