Eur e dintorni, omaggio con irritazione e amore.

Sabato 17 giugno, in occasione della Notte bianca dell’Eur, la giovane scrittrice ha dedicato al quartiere che l’ha vista crescere, andarsene e infine tornare, il testo qui di seguito proposto.

Sono cresciuta all’ombra delle geometrie dell’EUR, espressione maggiore dell’architettura razionalista e appannaggio del Ventennio.

Fascista è una brutta parola, ma bisogna scriverla ogni tanto.

Doveva essere un’esposizione, addirittura universale, non se n’è più fatto nulla, non capita di rado in Italia.

Eppure, è ancora qui, questo quartiere precisamente incompiuto, a riempirmi gli occhi di spigoli, a raddrizzarmi le giornate, a sorvegliarmi le voglie.

Cinque anni di Liceo, il Cannizzaro, storico, solido, cubico, solenne, un invito ad ambire. Sì, ma a cosa?

Dentro, tra le mura, generazioni infelici, a modo nostro, come le famiglie di Tolstoj…non meno sensibili, tuttavia, di altre passate e più perdonate.

Figlia di mia madre a sua volta germogliata tra le vetrine, panchine e fioriere dell’epoca d’oro, quando la ‘provincia’ chiamata EUR sapeva di soldi, di nuovo e di mare.

Non volevo più tornarci: ho scarabocchiato percorsi lontani da queste vie dell’Arte, dell’Europa, di Beethoven e dell’Aeronautica. Andate tutti a quel paese: l’Umanesimo e la Scultura e l’armamentario, avevo pensato.

E invece, eccomi tornata, dopo anni sparsa altrove, a insegnare…all’Eur per l’Eur e dintorni. In questi bordi, ricamati, imperlati, merlati, ma pur sempre bordi, periferici sbocchi fertili e ideali per osservazioni ‘astroletterarie’. I miei planetari.

Ci rotolo ancora a mestiere su questi marmi, non miei, di altri, ma con eleganza, nonostante. Mi sostengono i portici, che mi solfeggiano gli echi, dagli orizzonti ampi, per contenere i miei sogni, le velleità, i sentimenti, e quei lasciti di Fellini e Antonioni e del cinema visionario di un’epoca che respira ancora dalla pelle dei capodogli bianchi, quando cala il sipario, alla sera, sulle onde anomale della nostra Roma Sud.

Nutro un misto di irritazione e di amore, insomma, per l’ordine scomposto di questi spazi, per i loro appuntamenti mancati, per i trascurati contrasti tra le diligenti linee e la colorita popolazione che ci scorre e ricorre.

Ricorre, allora, il tema ben noto del mio malcelato sgomento di fronte a ciò che sarebbe dovuto essere, ma è altro, a sorpresa…più bello!

In quel fitto mistero della fede che è l’eterogenesi dei fini.

Un caffè da Palombini, l’ennesimo sole al Laghetto, un buon vino. Me di nuovo da Giolitti, a riflettere sul tempo che passa sotto le mie finestre alte. Un settimo piano per vederlo da lontano, quel Palazzo della Civiltà impropriamente chiamato Colosseo Quadrato e che io arrotondo da anni nelle curve lente della mia nostalgia. E vedo anche San Pietro e Paolo, in due… perché un solo patrono per Roma non basta.

Siamo romani domani anche all’EUR, incastrati in parcheggi difficili, tra palazzi imponenti, e frasi scolpite d’orgoglio, a sentirci più piccoli, eppure, ancora, ancora, significanti.

[Il testo sarà pubblicato prossimante in “Rame, materiale per una termo-poetica”, una raccolta di prose poetiche di Cecilia Lavatore]