Gli agglomerati urbani sono giganteschi contenitori di polveri sottili, reticoli senza identità, luoghi di addensamento e solitudine. Ma sono anche affascinanti barnum di contaminazioni etniche, crocevia di incontri cosmopoliti, multiproprietà dei sentimenti condivisi, contesti di vita vera. Qui uno spazio, pur minimo, quasi rubato, è pur sempre appannaggio di chi arriva primo: uno può sostare e osservare, passeggiare e indugiare, il palcoscenico è grande, ci sono tante comparse e non si paga il biglietto.
Nel suo genere ogni città sa ospitare democraticamente. Le città e le metropoli assomigliano a enormi mantici che ogni giorno aspirano e soffiano i mille indistinti rivoli di varia e colorata umanità. Uno esce al mattino ed è subito inghiottito da questi flussi che ondeggiano come serpenti ubriachi. In città non ci si muove mai da soli. È come se ci si sentisse trasportati da un invisibile tappeto volante con infinite code svolazzanti: tutti al bar, tutti, in autobus, tutti in metropolitana, tutti in coda.
Finché non si arriva alla meta – il luogo di lavoro, l’ambulatorio, la scuola, il negozio – si è come mescolati in un impasto di gambe che corrono, di mani che gesticolano, di voci che si coprono, di rumori che si sovrastano. Senza contare i pensieri, che non si leggono ma che pesano più delle persone che li portano con sè. A volte in questo traballante caravanserraglio si prova la sensazione di sentirsi in compagnia, si osservano i volti, si scrutano gli stati d’animo, si mischiano le ansie, si percepiscono i pericoli.
Le città non sono mai mute, ti parlano con il brusio del vociferare senza trama, con il chiacchiericcio colto al volo, con le frasi lasciate a metà, con le storie rubate a chi ti sta accanto, con i saluti furtivi, con le stizzite imprecazioni di chi vuole segnare i confini della propria presenza. Le parole metropolitane sono curiose, gettate lì per caso, raccolte ora con indifferenza ora con malcelata attenzione: raccontano la vita, la quotidianità, le ricchezze e le povertà, l’ieri, l’oggi e il domani, le speranze e la rassegnazione. Le voci della città corrono lungo i marciapiedi e si alzano fino ai trenta piani dei similgrattacieli, salgono e scendono i gradini del metrò, entrano ed escono dai portoni che inghiottiscono i passanti distratti e frettolosi, come imbuti grigi e uguali.
Sono distratte ma insidiose, rapide e insinuanti, composite e disvelatrici. Sono motivo di intrattenimento e a volte di fastidio, ora si ascoltano con sufficienza e disinvoltura, ora si eludono con irritazione, ora si cacciano in malo modo nei rifiuti della giornata. Riaffiorano – insieme ai gesti e alle azioni, ai dettagli al momento trascurati, ai rumori del proscenio – nel viaggio di ritorno, nelle occasioni di stacco, al rientro a casa. Abbiamo atteso tutto il giorno il momento del commiato dalla città, ci mancavano i nostri rituali nascosti, le nostre intimità, i cantucci domestici. Ripartiremo domattina per affrontare ancora le insidie urbane. Ogni sera è davvero speciale a casa nostra: le pulizie arretrate, la bolletta del telefono, la lettera dell’avvocato, la convocazione condominiale, i voti dei figli, le analisi da prenotare, il cane da portare dal veterinario.
Sfogliamo distrattamente i depliant per le prossime vacanze, siamo in genere troppo stanchi per tracciare bilanci e poi c’è poco da stare allegri: il carovita, le bollette, le violenze, i fatti di cronaca, la pandemia, la guerra, la politica, l’età della pensione. La città è lontana, dimenticata.
Meno male che c’è la televisione: l’annunciatrice ha appena detto che è in programma “una serata tutta all’insegna del crimine”, era ora, che bellezza! Violenze di ogni genere, omicidi, armi a go-go.
Finalmente un po’ di relax.