Formiche | Draghi disegna l’Europa necessaria: rompere l’assedio del declino.

Il ritardo competitivo europeo e la riduzione della crescita hanno molto a che fare con il posizionamento dell’Europa nelle medie tecnologie, piuttosto che in quelle high-tech e con l’insufficiente investimento in innovazione.

Non è un libro dei sogni, ma una proposta di grande impegno ed efficacia che invita a non arrendersi al ritardo accumulato dall’Europa rispetto nella crescita del Pil negli ultimi vent’anni. Che, associata alla grande autorevolezza di Mario Draghi può mettere seriamente in moto un progetto radicale, come egli stesso l’ha definito, centrato su quelle politiche per la produttività e innovazione da molti invocate, (compreso il nostro Gruppo dei 20 di Tor Vergata, di cui nei prossimi giorni sarà in libreria il volume L’Europa a una svolta, che verrà presentato al Cnel al metà ottobre) ma assai poco realizzate. Non si può non condividere l’idea centrale del suo rapporto.

Il ritardo competitivo europeo e la riduzione della crescita hanno molto a che fare con il posizionamento dell’Europa nelle medie tecnologie, piuttosto che in quelle high-tech e con l’insufficiente investimento in innovazione. Basta pensare che dal 2000 ad oggi la produttività oraria del settore Ict nell’Ue è aumentata soltanto del 65%, (negli Usa del 240%) e che a fronte dei circa settanta miliardi impegnati dagli Usa sull’Intelligenza Artificiale, la Ue ne ha investiti circa 7. Il recente Digital Market Act interviene a livello di regolazione nel settore della digitalizzazione e dell’Intelligenza Artificiale. È però evidente che il tema va trattato, oltre che in termini di regolazione, anche nei suoi rapporti con la politica industriale che, ormai da tempo, ha preso un rilievo decisivo nella competizione globale.

Si potrebbe aggiungere che l’aumento della produttività totale, necessario alla ripresa dello sviluppo, è legata non solo al ruolo dell’Europa ma ,in gran parte, a quanto il settore privato parteciperà agli investimenti necessari, soprattutto nei servizi, in particolare ritardo. L’incertezza presente sui mercati e la frammentazione degli scambi legata all’esistenza di blocchi politico -commerciali contrapposti non facilita questa partecipazione. Rende, opportuna e necessaria una policy europea che si assuma una parte dei rischi d’investimento, come è già accaduto all’epoca della crisi finanziaria del 2008 con le scelte realizzate da Jean-Claude Juncker.

Non va poi dimenticato che la crescita del commercio internazionale è di grande importanza per l’Europa, visto che l’area dell’euro presenta un interscambio con i Paesi esterni di circa il 55% del Pil, a fronte di un 40% della Cina e un 25%degli Usa. In questo quadro è essenziale che la Ue si doti di una politica estera unitaria che le consenta di intervenire in direzione di un sistema funzionante di regole del commercio, come quello che era assicurato fino a ieri dalla Wto e che oggi appare in difficoltà sotto la spinta dei Brics (e non solo), assieme alle regole del sistema monetario internazionale fissate nel 1944 a Bretton Woods.

Non c’è dubbio che sono assai poche (tant’è che si finisce per citare sempre il solo caso di Airbus) le imprese in grado di sfruttare il vantaggio competitivo del mercato continentale europeo. È necessario un intervento che ripristini le condizioni di attrattività che si verificarono negli anni del grande successo del Mercato unico, con un impegno per la creazione di reti infrastrutturali europee e imprese alla stessa scala, come suggerisce il recente rapporto Letta Much more than a market.

Serve un mercato comune dell’energia che, collegandosi alle scelte fondative europee, è essenziale, non solo per ricercare le condizioni del minor costo dell’energia, ma anche ai fini di realizzare le nuove reti elettriche ‘intelligenti’ a livello continentale. Infine mentre non si può non convenire sulla priorità di decarbonizzaione, digitalizzazione e difesa rimane da trovare il consenso necessario a far fronte alla straordinaria dimensione dell’impegno finanziario previsto dal rapporto di 5 punti percentuali di Pil per i relativi investimenti.

 

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