Tra le rovine di una moschea distrutta dai bombardamenti, in mezzo alla polvere e al cemento sbriciolato, alcune mani tremanti sollevano con cura le pagine strappate di un Corano. Non è solo carta sacra: è memoria, identità, speranza. In un luogo dove tutto sembra sgretolarsi, quel gesto racconta una resistenza silenziosa ma profonda: la fede che sopravvive alla guerra.
Le immagini che arrivano da Gaza sono strazianti. Macerie ovunque, pianti, corpi sotto i detriti, ma anche piccoli gesti che gridano umanità. Salvare le pagine di un libro sacro in mezzo al caos non è solo un atto di devozione, è una dichiarazione. Nessuna religione condivide la guerra. Nessun Dio benedice le bombe.
La guerra, che da mesi devasta la Striscia, non risparmia luoghi di culto né civili. Moschee, scuole, ospedali: tutto può diventare bersaglio. Ma è proprio in questi luoghi sacri – simboli di pace e raccoglimento – che si consuma una delle ferite più profonde. Perché la distruzione di una moschea non è solo perdita materiale: è uno strappo spirituale.
Eppure, tra i resti di ciò che era, Gaza mostra ancora la forza della sua gente. Nonostante la paura, nonostante la fame, nonostante la perdita, c’è chi si piega tra le macerie per cercare le parole di Dio. Non per odio, ma per ricordo. Non per vendetta, ma per non smarrire la propria umanità.
Oggi Gaza conosce un dramma che sembra non avere fine. Le bombe cadono, i corridoi umanitari si bloccano, e il mondo guarda – troppo spesso in silenzio. Ma tra quelle pagine strappate del Corano c’è un messaggio che ci interroga tutti: quale pace stiamo costruendo se accettiamo che la fede venga sepolta sotto le bombe?
L’eco di quelle mani che raccolgono le parole sacre tra le rovine è un richiamo. Non solo alla solidarietà, ma alla coscienza. Perché tra le vittime di ogni conflitto, c’è anche la dignità di un popolo. E salvare una pagina può significare, nel cuore di chi soffre, salvare una speranza.