Certo, la drammatica guerra medio orientale richiama, giustamente, l’attenzione e la preoccupazione dell’opinione pubblica mondiale. Eppure, altrettanto giustamente, la cronaca italiana non può non registrare un fatto che sconvolge il mondo del calcio di casa nostra. E che suscita un sentimento di rabbia e di sconcerto. Un settore, il calcio, che come tutti sappiamo, continua ad essere una sorta di “religione civile” nel nostro paese. Un calcio che, per l’ennesima volta, è nuovamente attraversato da fatti riconducibili alle cosiddette “scommesse” che coinvolge calciatori giovanissimi, famosi e ormai celebri. Miliardari e milionari a loro insaputa dove i problemi e le ansie della vita quotidiana delle persone semplicemente non esistono perchè avvolti da una nube dorata fatta di privilegi, soldi, tanti soldi, divertimento, popolarità e spensieratezza. E lì, in quell’universo strano e singolare ma vero e reale, prosperano purtroppo vizi, deviazioni, dipendenze e a volte – forse addirittura irresponsabilmente – reati.
Ed è proprio in un contesto del genere, squallido e amaro, che dobbiamo aggrapparci ai miti, ai veri miti che hanno segnato il “gioco più bello del mondo” per continuare ad amare il calcio, a credere nel gioco duro ma pulito e anche nella serietà di chi lo pratica.
E, al riguardo, oggi non possiamo non ricordare la tragedia di Gigi Meroni, ala destra del Torino, l’ultimo calciatore ‘beat’ del nostro paese che concluse la sua vita in una fredda sera a Torino, travolto da un’auto mentre attraversava l’ormai celebre Corso Re Umberto in compagnia di un suo amico, Fabrizio Poletti, anch’egli calciatore. Era il 15 ottobre 1967, il Torino aveva vinto contro la Sampdoria per 4 a 2 e la domenica successiva c’era il derby con la Juventus. E Meroni, nella sua ultima partita al Comunale, era stato – come quasi sempre gli capitava – magistrale nel condurre la gara.
Certo, era un altro calcio. Dove gli attori in prima linea, appunto i calciatori, erano persone che parlavano con i tifosi, che conducevano una vita ancora sostanzialmente normale – anche se già agiata -, e dove la maglia era vissuta come una sorta di identità e di appartenenza ad una comunità. E Meroni, e non solo per la tragedia che ha interrotto la sua vita e il suo straordinario ed unico talento, è stato e resta un mito per intere generazioni. Per il mondo “granata” innanzitutto, ma direi per tutto il calcio italiano.
La “farfalla granata”, come lo definì in un memorabile libro Nando Della Chiesa, ha calcato i campi di tutta Italia con una leggerezza inimitabile accompagnata da un calcio poetico, fatto di creatività e spettacolo, estro e profondo rispetto dell’avversario. Era già un calcio che coinvolgeva profondamente i sentimenti popolari e divideva le tifoserie ma c’era un elemento che caratterizzava quei grandi campioni, alcuni dei quali sono diventati miti e non solo per i propri beniamini. E cioè, erano sì calciatori anche molto giovani ma soprattutto erano uomini che vivevano la loro professione con serietà e con responsabilità. Per questo erano dei punti di riferimento per la loro comunità sportiva innanzitutto ma per la stessa città in cui vivevano e giocavano.
E Gigi Meroni resta tuttora, nell’immaginario collettivo, come quel calciatore con i capelli lunghi, con i calzettoni abbassati, che viveva in una mansarda in Piazza Vittorio a Torino con una compagna, che amava dipingere, che aiutava silenziosamente i poveri del tempo e che infiammava ogni 7 giorni i propri tifosi e incantava gli avversari. E gli amanti del calcio continuano a guardare a quei miti per rinverdire l’attaccamento a questo sport che, seppur ammaccato e profondamente inquinato, continua a suscitare le emozioni e la felicità di milioni di persone, di tutte le età e di tutti i ceti sociali.