Gli immigrati in agricoltura sono il 32% della manodopera. Ma c’è l’ombra del caporalato

Roma, 10 apr. (askanews) – Gli immigrati che lavorano regolarmente in Italia sono stimati dall’Istat in 2,4 milioni circa, più del 10% degli occupati. In agricoltura, però, il loro contributo è certamente più rilevante di questo valore medio: gli stranieri occupati nel settore sono quasi 362.000 alla fine del 2022 e coprono il 31,7% delle giornate di lavoro registrate. E’ quanto rileva il primo rapporto sui lavoratori immigrati nell’agricoltura (“Made in Immigritaly. Terre, colture, culture”), commissionato dalla Fai-Cisl, realizzato dal centro studi Confronti e presentato al Cnel.

I dati istituzionali sono distorti per l’impatto concomitante del lavoro non registrato e delle registrazioni fittizie finalizzate ad accedere ad alcuni benefici sociali, spiega la ricerca. Ma offrono un’indicazione orientativa per cogliere la portata del contributo dei lavoratori immigrati all’agroindustria italiana e dei problemi di tutela che devono fronteggiare.

Le principali provenienze nazionali registrate nei dati istituzionali sono nell’ordine: Romania, Marocco, India, Albania e Senegal. Le nazionalità dei rifugiati non compaiono nelle prime posizioni e in generale l’Africa subsahariana è sottorappresentata. I lavoratori rumeni diminuiscono: da quasi 120.000 nel 2016 a 78.000 nel 2022; marocchini, indiani e albanesi crescono di qualche migliaio di unità: rispettivamente +7.009, +7.421 e +5.902. Sostanzialmente stabili i tunisini, passati da 12.671 a 14.071; mentre in termini relativi risulta più marcata la crescita dei senegalesi, che sono quasi raddoppiati, passando da 9.526 a 16.229 (+6.703), e molto sostenuta quella dei nigeriani, passati da 2.786 a 11.894 (+9.108). Aumentano anche i maliani, da 3.654 a 8.123, e i gambiani, da 1.493 a 7.107. Le fonti statistiche, dunque, certificano sì una crescita dell’occupazione degli immigrati subsahariani nel settore, non tale, tuttavia, da avvalorare la tesi di una sostituzione delle componenti da più tempo insediate.

Nella filiera agroalimentare, nel 2022, si registrano 1,4 milioni di occupati, 485,2 mila nell’industria alimentare e delle bevande, 895 mila nel comparto primario. La crescita della performance economica nel periodo 2015-2022 è stata accompagnata da un incremento dell’occupazione del +1,2%. Nonostante la contrazione progressiva dell’input di lavoro nel corso degli anni, l’agroalimentare italiano è ancora un settore strategico anche dal punto di vista occupazionale, con 1,6 milioni di occupati nel 2022, pari al 7% del numero complessivo in Italia.

Secondo il censimento dell’agricoltura, a ottobre 2020 risultano attive in Italia 1.133.023 aziende agricole. Di queste, 1.059.204 sono aziende individuali o familiari; le altre hanno forme societarie diverse, dalla Spa alla cooperativa. La gran parte delle prime non ha alcun lavoratore a libro paga. Infatti, la tipologia più diffusa di manodopera non familiare è quella saltuaria (presente in 127.820 aziende agricole), che concorre per il 66,4% al totale. Si tratta di poco meno di 1,3 milioni di lavoratori che svolgono lavori stagionali o limitati a singole fasi produttive e pertanto forniscono un contributo esiguo in termini di giornate di lavoro standard pro capite, pari a 41 a livello nazionale.

Il rapporto descrive anche l’evoluzione dello sfruttamento di manodopera, al di là del caporalato tradizionale o travestito da sistema di trasporto dei lavoratori verso i campi. Emergono forme di appalto e subappalto illecito, orchestrate dai colletti bianchi mediante girandole di imprese fittizie, società di copertura intestate a prestanome o false cooperative. Lo sfruttamento si espande in diversi settori, ma l’agricoltura rimane quello più a rischio. Nel quinquennio 2017-2021, su un totale di 438 casi di procedimenti giudiziari e inchieste per sfruttamento lavorativo ben 212 (oltre il 48%) hanno riguardato il solo settore agricolo.

Le regioni del Mezzogiorno sono le più colpite, ma lo sfruttamento è cresciuto anche al Centro- Nord. Nel 2017, su 14 procedimenti ben 12 riguardavano le regioni meridionali; nel 2018 erano 23 su 43; nel 2019 si è passati a 31 su 55, e nel 2021 a 28 su 49. Su questi dati incide la reattività dei contesti o, viceversa, la loro assuefazione allo sfruttamento, quindi la disponibilità a denunciare e a contrastare il fenomeno. I procedimenti giudiziari riflettono la componente venuta alla luce di questa piaga sociale, ma non la esauriscono. La loro distribuzione territoriale incrocia la diffusione effettiva del problema con l’azione repressiva. Si può comunque assumere un dato di massima: lo sfruttamento è più diffuso al Sud, ma lo si riscontra anche al Centro-Nord.