La storica decisione adottata ieri al XV vertice dei BRICS dai cinque capi di stato e di governo di Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica di procedere all’allargamento del Coordinamento a altri sei Paesi – Argentina, Egitto, Arabia Saudita, Iran, Emirati Arabi Uniti ed Etiopia – a partire dal primo gennaio 2024, rappresenta oggettivamente un fatto di rilevanza globale che non si può ignorare o sottostimare ma che va conosciuto e valutato per ciò che è, rispetto agli obiettivi di politica internazionale del nostro Paese e dell’Ue. A tal fine si possono formulare almeno quattro osservazioni.
Con questo primo allargamento, se si esclude l’ingresso del Sudafrica, che è avvenuto nel 2010, dopo appena un anno dalla loro fondazione, i BRICS passano al formato a 11, o BRICS11. I sei nuovi membri portano i BRICS a rappresentare il 47% della popolazione mondiale e il 36% del Pil globale. In pratica dal primo gennaio 2024 quasi un essere umano su due vivrà in un Paese BRICS. E si tratta solo del primo blocco di nuove adesioni. Dopo i suddetti sei stati, altri 16 stati sono in attesa di aderire.
Una seconda osservazione riguarda particolarmente l’Italia. Con l’adesione dell’Egitto, dovremmo familiarizzare sempre più con l’idea che la sponda Sud del Mediterraneo sarà prevalentemente composta in prospettiva da Paesi BRICS+. E quindi, l’Italia potrà svolgere un ruolo enorme per fare del Mediterraneo forse il principale laboratorio del dialogo tra UE, G7 e BRICS11.
Questa osservazione è speculare a un’altra: l’Unione Europea presenta una oggettiva necessità di stabilizzare la situazione al suo confine orientale con i BRICS (tra non molto potrebbe esservi anche la Bielorussia, oltre alla Russia) e di pensare a quale tipo di relazioni instaurare in un dopoguerra ucraino che prima o poi verrà. Adesso può sembrare irrealistico parlarne ma, ed è la quarta osservazione, questo allargamento dei BRICS dimostra che anche le cose ritenute impossibili possono realizzarsi, se si pensa che due Paesi come Arabia Saudita e Iran, che si sono a lungo combattuti in particolare nella terribile e lunga guerra per procura in Yemen, si ritrovano ora insieme. Una Unione Europea che voglia esser artefice del proprio destino dovrebbe guardare con interesse alla molla che ha fatto scattare il cambio di qualità nelle relazioni tra Teheran e Riyadh: il riconoscimento reciproco e la constatazione di guadagnare un futuro migliore per entrambi con la normalizzazione delle loro relazioni.
In definitiva i BRICS ci ricordano che il processo di transizione geopolitica in corso è inarrestabile. Nel futuro non c’è solo una loro ulteriore crescita ma l’obiettivo di estendere l’uso delle rispettive valute nei loro scambi commerciali.
Dobbiamo temere questi processi, e dobbiamo temere i BRICS? Forse dobbiamo temere soprattutto il nostro deficit di volontà nell’affrontare le sfide che i tempi ci pongono. Come afferma con chiarezza e senza ambiguità la Dichiarazione di Johannesburg II, la dichiarazione finale di questo vertice BRICS, tutte le istanze portate avanti dai BRICS sono da loro stessi concepite nel quadro della Carta delle Nazioni Unite, al fine di costruire un meccanismo di governance globale più partecipato, equo e condiviso. Vi è anche il riconoscimento del G20 come il principale forum multilaterale nel campo della cooperazione economica e finanziaria internazionale.
Rimane allora più che altro una barriera culturale da superare. Perché l’approccio multilaterale su scala mondiale, implica anche un approccio culturalmente plurale e interclassista a livello domestico (nesso che dovrebbe interessare particolarmente alla tradizione del popolarismo), che, come magistralmente argomentato da Giorgio Merlo ieri su queste colonne, viene mortificato da una volontà di egemonia, potremmo dire di unipolarismo interno, di autoproclamatisi giudici del discorso pubblico. Credo quindi, che ai Popolari non debba mancare la consapevolezza del fatto che l’approccio giusto alle grandi sfide, come quella che viene dai BRICS11, parte da come si esercita, si garantisce, si ri-conquista uno stile di effettivo pluralismo nella politica interna e locale, quotidiana.