Sopportare è un portare sotto, trasportare sulle proprie spalle le afflizioni del giorno. Insopportabili sono i commenti di questi giorni sulla morte di Giulia Cecchettin, compreso quello che state leggendo. Certamente insopportabili e forse necessari, ciascuno si regoli per come crede.
Questo sembra essere l’inevitabile conflitto che produce un evento tragico come l’omicidio di una ragazza per mano di un ex fidanzato che non tollerava l’abbandono.
La notizia è ghiotta per i palinsesti dei giornali e delle rubriche televisive. Insopportabile è il microfono messo sotto al naso del parente o dell’amico della vittima con la domanda demenziale del tipo “Cosa si prova in momenti del genere”.
Insopportabile e ancor più stucchevole è la rituale ripresa di un funerale con gli immancabili palloncini bianchi liberati verso il cielo con la scritta “Non ti dimenticheremo mai”. Insopportabili le interviste e i commenti degli esperti che si fronteggiano per mostrare chi ha più acume.
Giuristi, criminologi, psicologi, sociologi, pedagoghi, un esercito di scienziati hanno occasione per dare il meglio della propria sapienza, una insopportabile esibizione di pensieri che non hanno nulla di originale, detti e ridetti per tanti misfatti precedenti.
Sembra maledicano una morte sempre uguale che non offre micce da far brillare per un soffio di novità.
In questo scenario la politica non sa purtroppo tirarsi indietro. Subito proposte di modifiche alle leggi che regolano la materia della violenza contro le donne. Non sapendo più che inventarsi fanno sfoggio di fantasia per proporre qualcosa che dia un ulteriore segno di partecipazione alla vicenda.
Così si genera il rischio di una rivendicazione di quei morti di ieri e di domani, per mano efferata, che non hanno avuto e non avranno la stessa rilevanza. In ogni caso, i Partiti anche su questo trovano modo di contrapporsi perché è sempre bene non appiattirsi sulle posizioni del nemico.
Se tutta questa manifestazione di pensieri ci fosse risparmiata, il silenzio sarebbe parimenti altrettanto insopportabile dandosi l’impressione di una trascuratezza verso un dolore che non può lasciare indifferenti.
È la tragedia del “male” che da sempre fa sbandare gli uomini. Di fronte ad esso non sanno come orientarsi, reazioni che comunque non possono essere che scomposte quanto inevitabili, inutili ed opportune.
Per la cronaca hanno trovato il corpo della ragazza in un canalone, un solco erosivo che ha intagliato il cuore della povera ragazza, alla base di un dirupo che è un rompere in più parti, spezzando la sua resistenza alle coltellate che l’assassino le ha inferto. Fendenti per abbattere il muro divisorio che la ragazza aveva eretto idealmente a sua protezione con mattoni disposti, come si dice in gergo, a “coltello”.
L’efferatezza si è consumata a ridosso del lago di Barcis che per alcuni storici della materia vuol dire “capanna”. Due cuori e una capanna era l’ossessione dell’omicida che ha posto fine ad una vita che pure diceva di amare. Del resto, “fine” sta per fendere, la divisione tra ciò che era e ciò che non deve essere più.
Si dice che le scolaresche portate in gita, meglio ancora in visita ai campi di concentramento degli eccidi nazisti escano con la consapevolezza dell’orrore che l’uomo può provocare sulla pelle di altri uomini.
Siamo pieni di fiction con scene di violenza più spesso con un bel finale dove gli eroi la spuntano sui cattivi. Così la morte sembra solo un frame, una singola immagine cui ne seguiranno altre con altri sviluppi che si raccontano. La morte come un incidente scontato e poco significativo di tutto un episodio.
Forse sarebbe bene far prendere alle nuove generazioni e non solo la confidenza con la morte. Portarli al cimitero, nelle camere mortuarie dove chi è nella bara non si rialza e non torna indietro, dove c’è un corpo gelido che finisce sottoterra o tumulato dietro una lapide di pietra.
Scappare dalla morte o renderla insignificante è il delitto inconcepibile di questa società. Non è un fatto tra i mille del giorno che cede il passo ad un cappuccino od una cena.
Alla morte va riconosciuta la sua dimensione di pienezza e di angoscia, di una definitività che cozza con la provvisorietà ed il succedersi delle nostre azioni quotidiane. Un morto si decompone; del cadavere non restano che ossa, non è una figura che resta intatta nella veste dell’ultimo respiro.
Raramente, soprattutto tra i giovani, si è vicino a un moribondo che soffre, che sgrana gli occhi per cercare un altro possibile respiro o per fissare un’ultima immagine che tra poco non gli spetterà più.
Se c’è un morto in famiglia si tende erroneamente ad allontanare i bambini e i giovani da quella visione di tristezza.
Ecco, forse più che campi di rieducazione, di un servizio di leva che dia regole di disciplina, più che corsi che insegnino una sana affettività nelle scuole, occorrerebbe mettere gli occhi in pasta della morte che non è un gioco dove si possono ricaricare le pile e cominciare da capo. Dalla morte non si riemerge in questa vita.
La prima poesia che si dovrebbe mandare a memoria a scuola è quella troppo nota di Pavese dove se ne conosce il titolo ma non il testo, “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”.
Forse già a scuola, e non solo, della morte se ne dovrebbe parlare assai di più, prestando attenzione a disgiungerla dagli odiosi fatti di cronaca di criminalità, come qualcosa da ricondurre solo a quelle ipotesi traumatiche.
Si parla di Giulia e del suo assassino facendo le pulci alla dinamica dell’accaduto, si sottolineano con insistenza, fino alla nausea, dettagli e particolari sanguinolenti che andrebbero risparmiati innanzitutto alla famiglia della vittima, utili a farci diventare prima investigatori provetti e poi giudici. Della morte però non si parla, se non come un elemento trascurabile della vicenda, continuando a sfuggirla perché di scarso appeal.
Anche queste righe sono insopportabili e per come possibile tenteremo di farcene una ragione e di chiedere scusa al lettore.