I partiti sono morti, sulla scena rimangono solo i leader.

Siamo di fronte a una sorta di “leaderpatia”. E cioè a una vera e propria malattia grave della democrazia politica rappresentativa, con le sue ripercussioni infettive. Un fenomeno interamente nuovo

Gli interessanti stimoli di Francesco Provinciali sulla cancel culture pubblicati su questo blog, mi hanno riportato alla mente un tema che mi ha sempre interessato e su cui ho sempre osservato da parte degli studiosi un silenzio incomprensibile. Ed è quello sulla “cancel politics” – mi  si consenta il termine – parente stretto della “cancel culture”.  La  digitalizzazione e tutto il mondo informatico, entro cui siamo ormai senza scampo immersi, “…costituiscono mondi paralleli dove il virtuale si confonde e si sostituisce al reale”, scrive Provinciali. Bene. Io evito la confusione  virtuale, e  mi soffermo solo  sul fenomeno (politico) della  sostituzione virtuale. Non solo su quella causata dal digitale, ma anche su quella dell’immagine televisiva e della politica-spettacolo, su cui esiste peraltro una letteratura critica immensa. 

Lo studioso che dal mio punto di vista ha però individuato e  previsto con chiarezza il fenomeno delle trasformazioni politiche in rapporto alla comunicazione è stato  il filosofo francese Bernard Manin con il suo libro “Principi della democrazia rappresentativa” e con  la sua “Democrazia del pubblico”. Mentre si chiudeva il Novecento, ha infatti sostenuto che la democrazia rappresentativa e partecipata, assieme al partito politico, sono entrati in una crisi irreversibile – quella che constatiamo e viviamo –  perché consegnati  integralmente nelle mani del singolo leader che stabilisce, ormai in solitaria, un rapporto diretto col pubblico, grazie, e solo grazie, alla comunicazione dei media.  

Facciamoci caso. Oggi conta solo il leader, spesso sognato e desiderato come uomo forte. Forse un leader carismatico e calvinista, individuato e scelto dalla grazia di Dio. Oggi contano di più la sua faccia e la sua immagine, anziché la sua mente, la sua morale, la sua serietà, il suo passato, e il partito che rappresenta. E contano di più la TV e  Internet, anziché le sezioni territoriali di partito. Il programma e gli accordi con altri leader che ha in mente, li conoscono solo i pochi addetti ai lavori e i giornalisti amici, non essendo stati discussi nelle direzioni dei partiti, nei congressi, nelle sedi locali, se ci sono. E se si tratta di un vecchio e storico partito – di destra, sinistra o centro che sia – ci rimane solo il leader assieme al ricordo e alla sua “…trappola identitaria nostalgica e..sentimentale. Gabbie che si aprono lentamente mentre la realtà intorno a noi cambia velocemente”scrive Sergio Fabbrini sul Sole 24 ore di domenica 24 settembre. Insomma è con la PAD, (politica a distanza), con la sua virtualità e con la sua spettacolarità che oggi dobbiamo fare i conti. Ed è con gli strumenti vecchi e nuovi della comunicazione sociale che il leader fa oggi politica. Altro non c’è!

Tento allora di spiegarmi meglio. Perché mentre il leader di un partito è spesso utile e necessario, e la personalizzazione della politica non è un fenomeno nuovo, quello che c’è di tragicamente nuovo, risiede nel fatto che la politica spettacolo a distanza ha però rivoluzionato del tutto la politica reale di vicinanza e di prossimità. Quella locale delle comunità cittadine; quella dei grandi valori liberali e democratici; quella ispirata ai valori dell’uguaglianza cristiana. Facendo saltare il voto identitario, di appartenenza e di stima reciproca,  accantonando definitivamente la condivisione di principi e programmi discussi e approvati, e consentendo al  voto di opinione e d’immagine un dominio assoluto una volta concentrata tutta la politica sul volto del leader e sulle sue posture grazie ai mass media.

Escludendo il conteggio dei Gruppi parlamentari, non si spiega in altri modi il perché ci troviamo oggi di fronte a ben 33 partiti presenti in Parlamento, tra partiti maggiori, minori  e regionali,  apparentemente diversi, con 33 leader, questi sì diversi; e non si spiega perché ci siano stati ben 68 apparentemente diversi partiti presenti alle elezioni regionali, diversi solo con gli autoproclamati leader, ma senza rappresentanza nei Consigli. È un aiuto indiretto ai partiti centrali più importanti o è il vero segno della  proliferazione di un leaderismo individualista, anche locale, che non ha niente da spartire con un autentico pluralismo? E se c’è stata di mezzo l’insana voglia di non mettersi insieme ma di correre gelosamente isolati, non  sbagliamo allora di molto se si dà ragione alla diade di Bernard Manin: la politica oggi la fanno i leader solitari e la comunicazione mediatica. Stop!

Al riguardo, basterebbe studiare bene il perché siamo in presenza di una abbondante – come abbiamo notato –  proliferazione di partiti parlamentari e il perché assistiamo a una continua volatilità del voto politico, nonché di  trasferimenti di voti fra partiti fondamentalmente diversi, se non opposti. Non escludendo il motivo dell’assenteismo. È grazie però a tutto questo che il leader si è trasformato in un divo cinematografico. Un fenomeno interamente nuovo sulla scena della democrazia. Un fenomeno però  sicuramente pericoloso, che ci porta a valutare una squadra di calcio solo e soltanto in rapporto al pur necessario capitano, che, come è noto, vale molto di meno di tutta la sua squadra messa insieme, di tutti i suoi giocatori e di tutti i suoi tifosi. Un vizio leaderistico,  insomma, che si è trasformato in una sorta di “leaderpatia”. E cioè in una vera e propria malattia grave della democrazia politica rappresentativa, con le sue ripercussioni infettive e gravi sui presidenzialismi e sui premierati. Una malattia da curare urgentemente. Se si riesce!  Perché arrivati a questo punto, neanche forti dosi di democrazia deliberativa potrebbero far guarire dalla svolta individualistica e chiusa dei partiti italiani. 

Gli studiosi attenti –  escludendo naturalmente il lavoro dei giornalisti amici o di quelli alla ricerca della originale intervista quotidiana, dello scoop, della polemica – devono allora spiegare il perché quando ormai  si parla in Italia di politica e non solo di partiti, si parla sempre della Meloni, della Schlein, di Conte, Salvini, Tajani, Renzi, Calenda, ecc. Sono i segretari, ed è vero; ma oggi sono segretari della politica-spettacolo. E altro oggi non si nota. 

Concludo con delle domande. Ma questi nomi dei leader sono nomi di portavoci e di rappresentanti in continuo rapporto con i loro rappresentati? Sono i potenziali governanti in rapporto costante con i governati? Sono nomi che hanno dietro un reale seguito sociale che condivide quello che dicono e pensano? Sono nomi che studiano a fondo la societa concreta come suggeriva don Luigi Sturzo vestito da sociologo? O sono nomi di leader che rappresentano solo se stessi? E che si rivolgono ad una società astratta, desiderata e ipotetica, con la loro faccia  riproposta ripetutamente in primo piano sui media, con le promesse, con i vestiti cambiati e nuovi tutti i giorni, che fanno rimpiangere la giacchetta sempre uguale di Angela Merkel, con le passeggiate occasionali nei mercati rionali dopo aver informato  la televisione amica, con il rosario  e il Vangelo in mano, con la loro camminata velocissima da maratoneti sempre col cellulare all’orecchio, che attaccano e offendono l’avversario politico ad ogni occasione?  

Spero non siano domande impertinenti.