Il Centro non può essere un supermarket improvvisato e disordinato

Nel caleidoscopio di forze centriste, eterogenee per metodi, programmi e obiettivi, resta ancora irrisolto il dilemma se e quale spazio può ritagliarsi, per un ruolo di raccordo e cucitura, l’area cattolica.

Nel bagliore di una scadenza elettorale epocale (il prossimo giugno) nella quale si rinnoverà il Parlamento europeo e la governance dell’Unione europea, prosegue l’affannoso lavoro dei partiti intenti a definire ogni peculiare connotazione identitaria, stante la specificità, unica nell’attuale nostro panorama nazionale, di votare con il sistema proporzionale.

Un sistema che da trent’anni abbiamo abbandonato, da quando con il referendum, proposto da Mariotto Segni, il paese passò al sistema maggioritario, sia pure con qualche correttivo, il Mattarellum, e da allora, via via, modificato, con intonazioni, più o meno similari. Una volta tanto ciascun partito sarà scelto per la sua forza di attrazione e non per quella del maggiore o minore effetto che proviene dal ricorso a strumentali o convinte aggregazioni.

Il fatto è che a meno di un paio di mesi dalla presentazione delle liste, tutto appare ancora in grande fluidità. Dovuto in parte al clima di disorientamento e di acredine che si è innescato tra i partiti delle due coalizioni dopo il botta e risposta delle elezioni nelle due regioni della Sardegna e dell’Abruzzo.

La vittoria del centrodestra in Abruzzo ha ridato fiato e baldanza alla coalizione di Giorgia Meloni, mentre a sinistra si paga lo scotto di una ammucchiata senza una comune anima politica. Gli strascichi non sono comunque pochi, né a destra, né a sinistra. Mentre a destra FdI continua bellamente a tenere testa, l’avanzata di FI, che ha doppiato in Abruzzo il partito di Salvini, sta per provocare un maremoto all’interno della Lega, con tutti i contraccolpi che possiamo immaginare da un Salvini messo alle corde, per il fatto di essere oramai terza forza della coalizione di governo.

Sul versante opposto, il Pd, che ha ben tenuto, guadagnando addirittura qualche punto, non ha trovato nell’alleato 5 Stelle di Conte, con cui si è dato corso alla formula del “campo largo”, la medesima tenuta elettorale.

Lo stesso versante centrista della coalizione di centrosinistra ha fatto registrare un flop inaspettato, anche se non erano mancate le critiche ad una coalizione che più che un campo largo, appariva essere una miscellanea di identità, liberale, socialista, riformista, radicale, azionista e popolare.

Insomma un’armata Brancaleone con il risultato di non riuscire ad accreditare un progetto serio, credibile e efficace, perciò incapace di ripetere il successo ottenuto in Sardegna (dove in realtà i centristi Calenda e Renzi sostenevano Soru). Ma quello che appare degno di nota, al di là della riconferma del governatore Marsilio, è la grande performance di FI che ha raddoppiato i consensi, scavalcando ampiamente la Lega di Salvini. Il risultato mostra lapalissianamente una realtà in divenire di cui Tajani si è saputo, in questo momento, fare interprete.

In questo spettacolo da circo Barnum, che ha trasformato la nobile vocazione centrista in un supermarket senza confini, egli è riuscito, pur nella amara constatazione che ancora una volta metà degli elettori preferiscono restare a casa, a sfondare ogni barriera verso quel l’elettorato di centro, che, magari votando turandosi il naso, si è cominciato a stancare di stare ancora alla finestra e attendere un serio partito di centro. Per contro, di certo, poco aiutati dalla coalizione di centrosinistra, che palesemente non mostrava grande afflato tra le forze che la sostenevano.

C’è però da non trascurare il fatto che ha giocato a favore di Tajani, nel suo balzo in avanti, anche una certa migrazione, a ridosso delle elezioni, soprattutto, di esponenti provenienti dai 5 Stelle verso FI, con tutto il riverbero favorevole di parte di quell’elettorato. Mentre non è escluso che parte dei consensi siano venuti da quell’elettorato, sempre più liquido (teoria di Bauman) che dalla Lega si è spostato verso FI.

Ciò non toglie il riconoscimento di una certa astuzia politica che Tajani ha saputo usare nell’accreditarsi come seria espressione di partito moderato, anche se non rassicura tutta quella parte di elettori che, pur guardando con cautela a soluzioni di centrodestra europeiste, non condividono quelle visioni lepeniste e del gruppo di Visegrad, anti-solidariste e sovraniste: ossia quel quadro identitario di alleanze che propongono, in giro per l’Europa, sia Meloni che Salvini. C’è anche da mettere in conto la quotidiana ribalta mediatica, che sorella Rai, e mamma Mediaset, hanno offerto in questi mesi, a Tajani, complici le contingenze mediatiche dei noti conflitti bellici (Ucraina e Gaza) e tutta la fitta agenda di rapporti nei diversi paesi, non solo del quadrante europeo, che hanno messo in primo piano l’incessante opera di raccordo e i tentativi di mediazione che competono (al di là delle maggiori o minori enfasi con cui sono state trattate le notizie) ad un Ministro degli Esteri, come si richiede in questi frangenti.

A ciò si aggiunga tutta la ingannevole narrativa sulla solidità della coesione del centrodestra (con le strumentali passerelle di ministri e governatori della maggioranza). Espedienti che, seppur strumentalmente idonei a incentivare una fidelizzazione territoriale,  non hanno convinto quanti hanno visto in questa coalizione – sempre più in una idea di Legge e Ordine per il popolo,  laisser faire e un fisco indulgente per le élite – una deriva autocratica, preferendo di non andare a votare.

Ora, in questo caleidoscopio di forze centriste, eterogenee per metodi, programmi e obiettivi, resta ancora irrisolto il dilemma, se e quale spazio – in un rassemblement o come forza trainante – può ritagliarsi per un ruolo di raccordo e cucitura, l’area cattolica, impegnata a dare prosecuzione all’esperienza della Dc.

Un bel rompicapo! Che suscita la conseguente domanda: c’è oggi, per un compito così impegnativo, un partito diverso dalla Democrazia Cristiana, in grado di rappresentare pienamente il mondo cattolico, capace di raccogliere, in questa fase elettorale così convulsa, un sostegno ed un consenso sufficiente per affermare questi obiettivi?

Se lasciamo la risposta dentro i confini di questa semplice domanda, di certo oggi non appare rappresentativo un partito come FI, fedele gregario di politiche economiche e sociali anti-solidariste e passivamente piegato su posizioni sovranazionali che, ad oggi, non favoriscono agevolmente la soluzione dei conflitti in corso. Saprà allora la Dc accreditarsi subito come forza di mediazione e ricucitura, delle diverse istanze che mirano in quella direzione o dovrà più semplicemente, se vuole glissare l’impaccio della raccolta delle firme, accontentarsi di giocare una partita al traino di altre forze, che, alla mercé di decisioni sugli schieramenti futuri, a cominciare dalla partita europea della nuova governance, costringeranno poi a condividere scelte incompatibili?