Il Centro rappresenta il luogo della riforma per la democrazia.

La crisi dei partiti e quindi della rappresentanza democratica è stata terribilmente accentuata dall’involuzione che abbiamo conosciuto dal 1989 ad oggi. Bisogna riscrivere un moderno patto per la democrazia rappresentativa.

“Occorre una riflessione sulla storia e la cultura del nostro paese negli ultimi anni, sui mutamenti intervenuti fra e nelle forze politiche, nonchè sui fatti internazionali che hanno modificato la situazione politica in Italia. Il dato certo è la crisi delle istituzioni e della capacità di mediazione dei partiti. Generale è il riconoscimento che le istituzioni non reggono più. I partiti non mediano più gli interessi della società civile”.

Sembra la fotografia di oggi. Sono parole – a metà strada tra l’analitico e il profetico – pronunciate da Ciriaco De Mita nell’aprile 1969, durante un convegno della “Base” tenutosi a Firenze.

Occorrerebbe forse partire da qui, per provare a dare un senso compiuto all’esperienza del Centro che Matteo Renzi ha voluto lanciare e che sarà al centro del percorso politico che ci separa dalle prossime, cruciali, elezioni europee del giugno 2024.

Una riflessione sulla storia e la cultura del nostro paese. Sui mutamenti intervenuti fra e nelle forze politiche. Sui fatti internazionali che impattano sulla politica in Italia.

Il metodo demitiano è ancora utile per l’oggi. E  soprattutto le conclusioni alle quali lui perveniva allora, domandandosi i motivi della stagione della contestazione, sono assolutamente valide per l’oggi.

La crisi dei partiti, della rappresentanza democratica è stata terribilmente accentuata dall’involuzione che abbiamo conosciuto dal 1989 ad oggi. Il crollo del Muro di Berlino sorprese “la Repubblica dei partiti” – per riprendere la definizione di Scoppola – e mise in crisi il meccanismo che secondo De Mita aveva presidiato alla democrazia repubblicana: nel funzionamento a singhiozzo delle istituzioni, aveva funzionato solo la mediazione fra i partiti, e le tensioni sociali presenti nel Paese non avevano trovano una possibilità di mediazione nel rapporto governo-parlamento, ma nella parzialità di una sintesi ideologica tra le forze politiche. Una volta saltati i partiti con la slavina di Mani Pulite, sono rimaste sul campo le sole istituzioni come guarnigioni della democrazia, con tutti i loro limiti e la loro farraginosità. E tutte le stagioni di riforma messe in campo in 30 anni, per motivi vari e noti sono risultate sterili.

Il risultato, preoccupante per chi ha a cuore le sorti della democrazia, è quello che oggi ci troviamo a dover fare i conti con un panorama nel quale i partiti sono in profonda crisi (e la leaderizzazione personalistica di tutti, tutti quanti nessuno escluso ne è la conferma) e le istituzioni democratiche arrancano (mai come in questa legislatura il Parlamento, costituzionalmente centrale, è stato trasformato in un luogo di ratifica veloce e burocratica di decreti emanati a getto continuo dall’esecutivo, con l’evaporazione della autonomia capacità di produzione legislativa e di impulso politico).

Il futuro della democrazia rappresentativa non è un argomento sufficiente per definire una politica di Centro, una proposta alternativa rispetto alle pulsioni bonapartiste della destra e alle logiche da democraticismo diretto  che albergano tra Schlein e Conte?

Già Norberto Bobbio nel 1984 aveva ammonito, riflettendo sul futuro della democrazia, che la democrazia diretta era impraticabile (per la complessità dei fenomeni, per l’estensione degli Stati, per il bagaglio di competenze necessarie alla soluzione dei problemi). E nei fatti richiamava la lezione di Max Weber e sul professionismo della politica, rimandando all’esigenza della costruzione di regole per rendere attuali le condizioni della democrazia.

La garanzia dei diritti e delle libertà civili, del suffragio universale, della partecipazione dei cittadini, pongono un problema essenziale di regole, sapendo però guardare oltre di esse.

Per questo appare essenziale la riforma degli strumenti della democrazia, che siano tanto le istituzioni repubblicane quanto i partiti.

De Gasperi ammoniva a cercare nella struttura della democrazia interna ai partiti la qualità della democrazia per il Paese, qualora quei partiti fossero arrivati al governo della Repubblica. Un partito democratico al proprio interno è sinonimo di pluralismo per tutti, un partito totalitario al proprio interno è sinonimo di compressione di libertà per ciascuno.

E negli anni ‘70 Giovanni Marcora ricordava come fosse la non funzionalità dei meccanismi istituzionali a non consentire al sistema democratico di esprimere appieno le sue potenzialità.

Su questo terreno, la destra arriva con un deficit evidente dalla propria Storia, che immagina una soluzione sbrigativa e semplicistica dentro la compressione dei poteri; e la sinistra vi giunge con una confusione argomentativa che l’ha vista in 30 anni praticamente sostenere tutte le posizioni, da quelle iconoclaste di Mani Pulite a quelle maggioritarie della stagione dei sindaci, fino all’attuale stagione proporzionalista, resa peraltro vaga dal vuoto pneumatico espresso sin dalla segretaria in materia di forme delle istituzioni democratiche e relative riforme.

Il Centro, innescato da chi sulla stagione delle riforme istituzionali ha pagato anche un prezzo altissimo come Matteo Renzi pur di essere coerente con lo sforzo di ammodernare il paese, può e deve essere il luogo della riscrittura di un moderno patto per la democrazia rappresentativa. Lo è per cultura, per storia, per tradizione. E per prospettive. Tutto sta nel mettersi in marcia, come intendiamo fare insieme con tanti altri.

 

[Tratto dal profilo Fb dell’autore]