Non c’è che da essere concordi con quanto sostiene il costituzionalista Michele Ainis su “Repubblica” di qualche giorno fa, quando afferma che lo spostamento di poteri in capo al presidente del consiglio e la sua elezione affidata direttamente al corpo elettorale riduce il capo dello Stato a “notaio” degli eventi politici. Se poi si aggiunge l’introduzione di un premio di maggioranza al 55% dei seggi “…potrebbe entrare in campo l’offesa ai principi supremi della Costituzione”.
Un giudizio severo che evidenzia tutto il pressapochismo e al contempo la pericolosità di questa proposta governativa perché apre insidiosi sentieri oltre i confini della Democrazia. La questione non è solo giuridica ma principalmente politica. C’è una destra che da tempo nutre l’idea di riscrivere la Costituzione, soprattutto in quella parte in cui fu senza remore, per le note vicende del Ventennio, l’intento dei padri costituenti di affidare al potere legislativo, quindi al parlamento, la centralità del sistema istituzionale. I tentativi non sono stati pochi.
Già con l’introduzione del maggioritario nel 1993, il cosiddetto Mattarellum, che produsse un infausto bipolarismo, si inneggiò alla fine delle instabilità dei governi,
Ci si dovette ricredere nel corso della stessa legislatura. Di lì si passò alle bicamerali. Se escludiamo la prima bicamerale presieduta dal liberale Bozzi, negli anni ‘80, dove già emergevano posizioni in favore di un sistema presidenziale, fu con la successiva del 1993/94 a presidenza De Mita e poi della Iotti, che varò un testo di revisione costituzionale attingendo dal modello del cancellierato tedesco, consegnato alle camere per il suo ordinario iter. Decadde per l’interruzione anticipata della legislatura. Da ultimo, nel 1997 si registrò altro tentativo a presidenza D’Alema, con un confronto ancora più serrato tra fautori del presidenzialismo e difensori della centralità del parlamento. In un clima incandescente finì traumaticamente per il forte contrasto di posizioni che si era creato attorno a D’Alema e a Berlusconi.
Di lì si passò ai testi votati e consegnati al corpo elettorale attraverso i referendum perché approvati con maggioranze al di sotto dei due terzi.
Tra i diversi testi, la riforma del Titolo V approvata con referendum nel 2001, e successivamente nel 2006 bocciata nelle modifiche proposte sul modello di Autonomia dal governo Berlusconi; la riforma proposta da Boschi-Renzi, sul bicameralismo, bocciata nel 2016 dagli elettori e infine il successivo referendum sulla riduzione dei parlamentari approvato, nel 2020, seppur facendo registrare una scarsa partecipazione al voto dei cittadini.
Il sospetto oggi è che sullo sfondo di questa iniziativa governativa di revisione costituzionale sia in gioco la democrazia rappresentativa in confronto ad una più malleabile democrazia plebiscitaria. Così non è un azzardo dire che la proposta di riforma della Costituzione della Meloni mira sostanzialmente a scardinare consolidati equilibri del nostro sistema costituzionale. L’iniziativa ha scosso parecchie coscienze preoccupate da una deriva incontrollabile del nostro assetto costituzionale.
Appena un mese fa Mario Tassone in un suo articolo su questo giornale così ci metteva in guardia: “..Dopo tanti anni di sospensione della democrazia, iniziata con la riforma elettorale del 1994, si sta andando verso il superamento della Costituzione del 1948. Le grandi motivazioni ideali e morali,che sono le fondamenta della nostra Repubblica sono “eliminate”nel disegno della maggioranza di governo”. Ed ancora:”..Non più una Repubblica Parlamentare ma un presidenzialismo “monarchico”. Una “democrazia” dei laeder, con vaste aree di extraterritorialità dove poteri senza controllo operano e decidono. Siamo all’eversione”.
E riproponendo ieri una più ampia disamina dell’iniziativa costituzionale della Meloni, così leggiamo: ”Una mobilitazione deve nascere nella coscienza del Paese. Questa è la madre delle battaglie per salvare valori di riferimento di una grande storia umana. La destra-destra ha assorbito Forza Italia, cadono le speranze del moderatismo di fronte a un partito con una guida mesta.”.
Fa specie infatti la conversione di FI al servizio dei teoremi di Giorgia Meloni.
In questa cornice c’è chi delinea questa occasione come forte stimolo ad una iniziativa congiunta che, sul presupposto di una comune lavoro di elaborazione di un progetto di modifiche costituzionali come contributo per un confronto tra culture, si possano cogliere tratti comuni per una partecipazione unitaria alle prossime elezioni europee, anche per dare un chiaro segnale di dialogo a condizione che si mantenga la centralità del parlamento.
Ma anche di contrasto, in modo che renda evidente nel paese una forte convergenza delle forze di opposizione e dell’area dei popolari e dei cattolici democratici tesa, appunto, a creare una cintura unitaria in difesa degli assi fondamentali della nostra Carta Costituzionale ed impedire che la proposta governativa possa raggiungere i due terzi in seno alle Camere.
Ma non va trascurato l’ulteriore obiettivo che ha in mente il governo di arrivare a votare in prima lettura questo testo che per quanto smentito dalla Casellati, appare totalmente blindato nella sua versione: un evento che se si verificasse potrebbe giocare alle elezioni europee in favore della Meloni in direzione di obiettivi più ambiziosi tesi a spostare più a destra la maggioranza per un governo dell’Ue che includa i Conservatori, testa di ponte per fare poi entrare nell’area della eventuale nuova maggioranza, in tempi più convenienti, i partiti estremisti di quel versante.
Non di minor importanza si palesa il fatto che l’accentramento di poteri in capo al premier e un parlamento debole e subalterno all’esecutivo, creerebbero delle porte girevoli nei momenti in cui più forte può essere la contrapposizione tra partiti o con la società civile, esponendo pericolosamente il sistema a facili derive autocratiche, sull’esempio del modello ungherese di Viktor Orbán e di quello polacco, pur se in qualche modo, con la vittoria recente della coalizione di centro che fa capo a Donald Tusk, in Polonia il pericolo sembra essere rientrato.
Questa sfida non può non trovare in prima linea popolari e cattolici democratici, custodi di un patrimonio di ideali e di valori che furono e sono ancora oggi espressione di quella comune matrice che diede un contributo prevalente alla scrittura della nostra Costituzione. Colmando così un vulnus politico causato da decenni di bipolarismo malsano mentre il sistema politico convergeva sempre più verso derive populiste e demagogiche.
Su questa idea conviene anche Giuseppe Davicino, che, dalle pagine di questo giornale, delinea la genesi di un possibile ricompattamento dell’area dei cattolici democratici e dei popolari su un tema così cruciale per l’assetto e l’avvenire della nostra Repubblica e il profilo futuro di Europa, giungendo ad osservare: “..Se daremo prova di saper affrontare nell’area di centro il tema delle riforme istituzionali con un tale spirito, si potrà forse arrivare uniti alle prossime Europee e trovare la chiave che in futuro consenta di gettare le basi per una esperienza politica di centro maggiormente strutturata e rappresentativa, dei territori e dei ceti sociali.
L’impegno non è da poco.
Troppe asperità e incomprensioni si frappongono da tempo nel cammino unitario che spesso è stato evocato e si è provato, infruttuosamente, a sperimentare.
Ci voleva la segreteria di Elly Schlein per convincere gran parte degli esponenti di area popolare dell’incompatibilità di visione tra quella cultura e il nuovo Pd.
Certo appare un po’ bizzarra la scelta dei tempi adottata dalla Meloni per presentare una proposta di modifica costituzionale così dirompente, tanto da venir definita da alcuni osservatori una mera arma di distrazione di massa per non farsi travolgere dalle critiche, sempre più accentuate, sulle tante incongruenze e improvvisazioni della proposta di legge di bilancio.
Ma appare più plausibile il fatto che sia prevalso nella premier l’idea di affrettare i tempi proprio in vista delle prossime elezioni europee per dare un chiaro messaggio soprattutto, ma non solo, ai suoi sodali, campioni del sovranismo in Europa.
Ecco perché questa versione di premierato, non riconducibile né alla tipologia tedesca, né a quella britannica (in nessuna delle due c’è elezione diretta del premier) né ad altri modelli quali il presidenzialismo o il semipresidenzialismo è l’unica variante non codificata più funzionale ad un corposo accentramento di poteri in capo ad un esecutivo dominato dalla figura del premier eletto dal popolo.
Si mette insomma in campo una versione sui generis di premierato “forte” (definizione data dal politologo Giovanni Sartori in un suo mirabile testo di qualche anno fa nel quale descrive e analizza sistemi elettorali e forme di Stato) con elezione diretta da parte del corpo elettorale, modello che costituisce un inedito tra le forme di governo adottate nel mondo (l’unica sperimentazione si è avuta in Israele, presto abbandonata) ritenuta da Giorgia Meloni in grado di venire incontro ai tanti invocati pieni poteri che da tempo le due destre reclamano per risolvere (si fa per dire) “autoritariamente” i problemi del paese.
Senza contare la forte distonia che genera la diretta investitura del capo del governo votato dal popolo rendendolo inamovibile per l’intera legislatura.
Il problema sorge se nel corso di legislatura viene meno la maggioranza che lo sostiene.
A quel punto al premier non resterebbe che sciogliere le Camere (altro potere che verrebbe distratto, come da testo del Consiglio dei ministri, al Capo dello Stato)
Per rimediare a questo inconveniente la ministra proponente Casellati ha inserito una soluzione nell’intento di impedire il facile ritorno alle urne, che appare assai improvvisata e incongruente, ossia l’idea di un nuovo premier preso dai ranghi della precedente maggioranza, obbligato a portare avanti lo stesso programma pur in presenza di una maggioranza diversa.
Un pasticcio evidente che rende tutta l’incoerenza di un rimedio che appare assai raffazzonato e tutta la fragilità di un modello poco compatibile con il resto del nostro impianto costituzionale.
Molto più lineare sarebbe una soluzione alla tedesca con un premier scelto dalle Camere e la cosiddetta sfiducia costruttiva come presupposto politico per risolvere una crisi della maggioranza.
Pur a voler concedere una ipotesi di elezione diretta del premier, la proposta governativa non ha risolto nessuno dei problemi che questo rafforzamento di poteri in capo all’esecutivo comporta; sia perché induce automaticamente ad un palese indebolimento della figura rappresentativa e dei poteri del Presidente della Repubblica la cui fonte di legittimazione del suo potere finisce per accusare una obiettiva sudditanza ad un potere esecutivo con investitura diretta da parte del corpo elettorale.
Così non è difficile immaginare quanto questo sbilanciamento dei poteri possa essere foriero di sovrapposizioni e soprattutto di contrapposizioni nel costante rapporto tra il capo dell’esecutivo, che non mancherà nei casi di conflitto di rivendicare la sua diretta legittimazione popolare e il Presidente della Repubblica, dimezzato nei poteri e nelle sue funzioni di garanzia, equilibrio e tutela degli interessi generali del paese.
L’effetto non è di poco conto perché così si svuota il supremo ruolo del presidente della Repubblica quale rappresentante dell’unità nazionale.
Insomma, con l’idea singolare di dare legittimazione popolare al presidente del consiglio, che non si pone più come primus inter pares, non saranno infrequenti i conflitti tra poteri.
E ovviamente il conferimento dell’incarico di primo ministro da parte del presidente della Repubblica, a seguito delle consultazioni, non passa più da una valutazione politica ma da una mera presa d’atto della scelta che ne hanno fatto direttamente gli elettori.
Ora è chiaro che il consistente accentramento di poteri in capo al premier, che diviene il protagonista e arbitro dell’attività legislativa, senza più il contraltare forte di cruciali funzioni di garanzia del presidente della Repubblica, può essere facile terreno per una una versione populista della politica.
Del resto la stessa presentazione che di tale progetto di modifica costituzionale in questi giorni ne ha fatto la Meloni, e l’idea spregiudicata di introdurre direttamente in Costruzione un premio di maggioranza del 55 per cento al partito o alla coalizione vincente, lascia intendere che l’obiettivo non è giungere ad un ragionevole e coerente miglioramento delle disfunzioni del sistema attuale.
Quindi non è altro che un palese pretesto l’intento di assicurare stabilità attraverso governi di legislatura.
Se davvero si fosse voluto andare in direzione di un miglioramento del sistema, sia nel segno della stabilità che della piena rappresentanza dei territori si sarebbero dovuti preoccupare anche di assicurare una collegata proposta di modifica dell’attuale legge elettorale in direzione di un sistema proporzionale.
Invece il modello adottato e l’ampia previsione di un consistente premio di maggioranza, senza indicare la soglia minima da cui farlo scattare, in spregio ad una chiara pronuncia della Corte Costituzionale la cui indicazione ha ritenuto come requisito imprescindibile, porta a ritenere tramontata definitivamente l’ipotesi di una modifica in senso proporzionale della legge elettorale.
Si capisce allora come la sfida lanciata è di quelle che hanno il sapore di un autentico assalto alla Costituzione nell’intento di scardinarne l’equilibrio dei poteri e rendere il parlamento un corollario dell’esecutivo e il Capo dello Stato un semplice notaio, con poteri dimezzati.
A questo punto nessuna cultura politica può tirarsi fuori da questa sfida.
Ma essa è talmente dirompente, almeno per come si presenta, che appare difficile, come qualcuno suggerisce, confidare nella panacea che possa bastare un ideale confronto tra progetti elaborati dalle forze politiche di opposizione per riportare equilibrio e bilanciamento tra i poteri.
Di certo il testo blindato, come peraltro è da un po’ di tempo consuetudine di questo governo, che giunge a vietare ai membri della propria maggioranza di presentare emendamenti al testo governativo, fa prefigurare un confronto più di facciata che per un serio risultato.
Ci pare perciò, a tal proposito, un po’ incomprensibile quanto sostiene, su questo giornale di qualche giorno fa, Giorgio Merlo: “…l’ennesimo progetto di riforma istituzionale e costituzionale di un Governo è una ghiotta e cruciale occasione per misurare la bontà e, soprattutto, la straordinaria modernità ed attualità del popolarismo di ispirazione cristiana”.
Ora pur confidando nel fatto che sicuramente le formazioni politiche che fanno capo alla cultura del popolarismo sapranno elaborare proposte capaci di superare le inconvenienze accumulatesi nel tempo, pur rispettosi del sostanziale impianto dato dai nostri padri costituenti, non mi pare ci sia ad attenderli alcuna commissione di saggi o arbitri pronti a valutare la bontà di questi auspicabili progetti, a fronte di una maggioranza blindata, poco incline al dialogo, e con un’opposizione che va in ordine sparso.
Ma pesa tanto anche l’attuale sicumera intorno alla preconizzata solidità di questa coalizione per tutto il tempo della legislatura, e l’obiettiva debolezza delle opposizioni, che tendono più a litigare tra di loro che a contrastare efficacemente nei contenuti il governo.
Con l’effetto di dare liberamente spazio alla seducente idea di costruirsi un modello a propria immagine e somiglianza, facendo perdere di vista le pregevolezze, in termini di flessibilità e adattabilità, del nostro impianto costituzionale, costruendo artificiosamente un bersaglio in quei meccanismi istituzionali che invece nulla hanno a che fare con il male che apparentemente si vuole combattere, ossia instabilità e trasformismo.
Mentre non poca responsabilità è da ascrivere al profondo mutamento, soprattutto culturale e nella formazione politica, avvenuto nel nostro sistema con la scomparsa dei partiti tradizionali e il sopravvento dei partiti personali o oligarchici, dove non c’è confronto dialettico ma solo la volontà del Capo e della sua ristretta élite (oggi si definisce cerchio magico) che sembrano aver perso di vista il bene comune a tutto vantaggio di un benessere non per tutti, nella insidiosa idea di una competizione tra ceti e blocchi sociali.
In un contesto così disarmante la cultura del popolarismo dovrà porsi come linfa vitale in difesa della centralità del parlamento e di una Europa più solidale e coesa. E sarà il paese a saper dire no, con il referendum, ad un così palese sovvertimento delle nostre istituzioni.