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La politica del confronto è il grande insegnamento di Zaccagnini e Moro.

Valgono alcune categorie che oggi sono sacrificate sull’altare del “nulla della politica”. Diceva Guido Bodrato che “anche dal peggior avversario politico si può sempre trarre qualche elemento che ti arricchisce”.

Quando si parla di “politica del confronto” nel nostro paese si pensa immediatamente ad una persona e ad un partito: Benigno Zaccagnini e la Democrazia Cristiana. Ovviamente mi riferisco alle persone e ai mondi culturali che non si riconoscono nel populismo dei 5 Stelle che hanno nel proprio dna la criminalizzazione politica del passato e a coloro – soprattutto a sinistra, agli ex e ai post comunisti – che storicamente sono i principali detrattori della Dc e di quasi tutta la sua straordinaria ed impareggiabile classe dirigente. Perché la “politica del confronto”, appunto, ha segnato una pagina di bella politica e di autentico spirito democratico. Certo, in una fase storica e politica profondamente diversa rispetto a quella contemporanea. Ma se la politica è cambiata e con la politica le sue antiche consuetudini, le categorie e gli stessi suoi istituti costituivi, è altrettanto vero che almeno sul “metodo” quella antica e feconda intuizione continua ad avere il suo fascino e, sopratutto, la sua straordinaria ed intatta attualità e modernità.

Perché, alla fine, che cos’era e che cos’è la “politica del confronto” di zaccagniniana memoria? Semplicemente un metodo e una prassi che rifiutano alla radice la logica della radicalizzazione del conflitto politico, la sub cultura degli “opposti estremismi” e la volontà prima di delegittimare moralmente l’avversario/nemico e poi di annientarlo politicamente. Ovvero, l’esatto contrario di ciò che predicano e praticano il “nuovo corso” del Pd della Schlein, i populisti dei 5 Stelle e la virulenza della Lega salviniana. E questo perchè “la politica del confronto” richiede alcune categorie che oggi, purtroppo, sono state sostanzialmente sacrificate sull’altare del “nulla della politica”, per dirla con Mino Martinazzoli, che continua purtroppo a caratterizzare ancora larghi settori della politica italiana. Un metodo che invera, quotidianamente, quel monito di Aldo Moro a praticare “la coscienza di sè e l’apertura verso gli altri” nei confronti di chicchessia. E quindi, e soprattutto, nei confronti degli avversari politici. Un metodo, infine, che non rinuncia alla propria identità politica e culturale – quando c’è, come ovvio – ma che percorre, con altrettanta chiarezza e determinazione, la necessità di procedere a confrontarsi con chiunque.

Ecco perché, ricordando proprio questo aspetto singolare e specifico di una delicata e storica stagione politica della nostra vita democratica, “la politica del confronto” quasi si impone anche in questa stagione della vita pubblica italiana. Perché, come ci insegnava uno dei teorici principali e più autorevoli di quella politica, Guido Bodrato, “anche dal peggior avversario politico si può sempre trarre qualche elemento che ti arricchisce”. Ma per poterla praticare, soprattutto quando si parla di riforme istituzionali e costituzionali, non si può scendere nella mitica ‘piazza’ urlando al “ritorno del regime, dell’autoritarismo, della compressione delle libertà e la fine democrazia” prima ancora di aver avviato un minimo dialogo politico e parlamentare con i tuoi avversari.

A volte sarebbe più utile recuperare la miglior lezione politica, culturale, civica ed etica del passato e non limitarsi, invece e al contrario, a contemplarlo in modo passivo ed inconcludente.

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