Il rabdomante De Rita alla scoperta dell’autopropulsione sociale

L’affascinante viaggio del fondatore del Censis nelle intersezioni delle relazioni sociali. Ciò che resta sottotraccia e va fatto riaffiorare, è lo sforzo di comprensione della realtà lungo il suo divenire.

Per chi cerca di dare un senso alla propria vita ripercorrendo un viaggio a ritroso e riannodando i fili delle esperienze che via via si sono sovrapposte alla ricerca di una traccia di coerenza è necessario svincolarsi dal coinvolgente “circostante” che abbraccia nel presente ogni forma di comunicazione prevalente, fatta di opinioni, suggestioni e contingenze che sovente prescindono dai necessari approfondimenti e tutto riducono ad una frettolosa diagnosi di complessità, un limbo che avvolge ma deresponsabilizza dal pensare. Ciò è vero soprattutto per chi – svolgendo un’attività intellettuale – necessita di poter fare sintesi tra memoria del passato e immaginazione del futuro. Ove ciò non fosse, si resterebbe impantanati nell’oggi senza un ancoraggio alle radici esistenziali individuali e collettive, privi di una matita che ci consenta di tratteggiare modelli di sviluppo.

Per Giuseppe De Rita, fine osservatore dell’evoluzione delle dinamiche socio-economiche e culturali dal dopoguerra ai giorni nostri, fondatore e Presidente del più autorevole Istituto di ricerca sociale, possedere questa capacità di scandagliare nelle intersezioni degli epifenomeni sociali considerati, ha costituito una sorta di lunga, coerente parabola professionale. È lui stesso che spiega un’avvertita esigenza e la confessa: “Mi è venuta incontro la necessità di capire se tutto il lavoro svolto per decenni con curiosità e meraviglia, dappertutto e rasoterra, facendo fenomenologia dei tanti minuti soggetti e processi di evoluzione della società italiana (la piccola impresa, le economie locali, le città intermedie), avesse un significato al di là dell’impegno professionale. Se fosse in qualche modo ricollegato al mio iniziale innamoramento per il concetto di sviluppo. Ho ripercorso così decenni di lavoro e ne sono uscite queste pagine”. 

Ne esce invero un saggio pregevolissimo ed esplicativo, direi una sorta di ricapitolazione di un cammino il cui primo passo (ricordo Goethe: “Il primo passo è libero, al secondo siamo tutti obbligati”) era stata l’intuizione – assunta come incipit di un iter lungo ed articolato – del valore dello sviluppo come fattore propulsivo condiviso in una dimensione sociale.

Il titolo e il sottotitolo di questo saggio spiegano il senso di questo scandaglio retrospettivo: “Lo sviluppo e il divenire. Nota sull’autopropulsione sociale”. In questo titolo sono molti gli impliciti sottesi: le elaborazioni soggettive, le dinamiche collettive, il tentativo di una guida razionale, l’intuizione, la traditio e la ratio (o, come preferisce De Rita, “fides et ratio”), le emergenze rilevanti e percepibili, ciò che resta sottotraccia e va fatto riaffiorare, lo sforzo di comprensione della realtà lungo il suo divenire.

Nel cogliere le spinte di autopropulsione sociale, De Rita sembra interrogarsi, rivisitando il proprio lungo percorso di ricerca ermeneutico-interpretativa, sul suo “innamoramento” per il concetto di sviluppo: una indagine retrospettiva che gli restituisce conferme di cui ad un certo punto sembra essere – a un tempo – rassicurato e sorpreso. Per uno come De Rita che si è trovato a cogliere e   interpretare la tensione autopropulsiva della società italiana nella crescita tumultuosa del secondo dopoguerra, prima dall’osservatorio dello Svimez e poi da quello del Censis, curiosità e meraviglia sono stati due fantastici sentimenti che hanno accompagnato e assecondato la naturale propensione ad utilizzare lo sviluppo come chiave di lettura “dappertutto e rasoterra”, entrando nei meandri più reconditi della dimensione economica, culturale, istituzionale del Paese. 

Una vocazione ed una scelta che sono stati insieme strumento di conoscenza e tensione immaginativa del futuro perché, crescendo, la società si fa mondo, cadono le barriere e i retaggi e diventa traente la forza di andare continuamente oltre, che si fa potenza del ‘non ancora’. Anche se oggi il concetto di sviluppo si è slegato dalla iniziale spinta propulsiva, poiché si tratta di un’idea messa in crisi da una molteplicità di fattori che lo comprimono fino ad arrestarlo: dalla sostenibilità ambientale a quella generazionale, dal ritorno delle tensioni internazionali, alle crisi economiche, alle pandemie ricorrenti, alle guerre distruttive e generatrici di regressi storici.

Sarebbe miope non prenderne atto: forse lo sviluppo non sempre è stato progresso, forse sono emersi limiti e condizionamenti soggettivi e collettivi, nella corsa all’emulazione e nella pseudo-panacea risolutiva e fintamente palingenetica della globalizzazione. Lo stesso De Rita, in altri saggi si interroga sui processi di transizione e digitalizzazione e sui tempi della loro metabolizzazione.

C’è tuttavia una dimensione individuale e soggettiva in questa tensione allo sviluppo e una naturale dimensione collettiva autopropulsiva su cui vale la pena soffermarsi: in questa consapevolezza ‘esperta’ De Rita introduce una chiave di lettura di cui sono stato personalmente sorpreso, non in senso deteriore ma per la spiegazione inattesa anche se alla fine convincente.

Lo afferma egli stesso in un passaggio decisivo di questo suo excursus retrospettivo alla ricerca di una coerenza che è riuscito a mantenere nel tempo: “Nella fenomenologia concreta della società opera, infatti, una spinta parallela, anche se non convergente, fra la componente di fede religiosa e quella di primato della ragione, in un misterioso coabitare del cacciariano “lavoro dello spirito” (di ricerca, innovazione, sviluppo) e del religioso, silenzioso operare dello Spirito. Due cammini non alternativi, che si vanno configurando come i due paralleli assi di progressione dello sviluppo moderno”. Ricordo nitidamente i passaggi più significativi di questa descrizione nell’intervista che realizzai con Massimo Cacciari sul suo libro “Il lavoro dello spirito” e ne trovo piena conferma.

Si tratta di un silente lavorio sottotraccia che non è prerogativa della categoria degli intellettuali perché l’anima di una società complessa si forma nelle interrelazioni sociali palesi e nascoste, tra i fili d’erba di un grande prato dove brulica la vita, nelle consegne e nelle fratture generazionali, nelle incomprensioni latenti tra ‘paese legale’ e ‘paese reale’. Il De Rita che ci parla di “valorizzazione del quotidiano svolgimento della vita dei sempre più numerosi e consistenti soggetti sociali” è la stessa persona che – riannodando i fili di un’esistenza dedicata alla conoscenza, alla lettura e all’interpretazione di tutto ciò che ci circonda e ogni volta genera stupore e meraviglia, – tra localismi nascosti e derive plebiscitarie – descrive come tutto sia accompagnato dal “cammino dello spirito” che ci porta a scoprire la presenza di Dio nel mondo.