In Somalia le mamme hanno dovuto tirare fuori l’ingegno per fronteggiare la carestia

 

 

Intanto che la pioggia torni a bagnare i campi, ci sono lacrime di veleno che madri versano nella pancia dei loro figli in modo che possano sognare di far scoppiare le pance di felicità.

 

Giovanni Federico

 

In Somalia non se la passano bene. La questione non è solo di governi che salgono e scendono. È una terra che nella sua radice è adatta per chi deve andare a mungere il bestiame, così che a volerne leggere la storia, anche solo dell’ultimo mezzo secolo, monta un affanno non da poco per i disordini che la politica ha messo in campo, pagando come sempre il popolo le conseguenze. È un paese che sa avere cura degli armenti, esperto di pastorizia ma che ha difficoltà a gestire i suoi abitanti. Tutto questo ha poco rilievo perché la natura non attende che gli uomini sappiano organizzarsi per il progresso. Ha tempi inadatti alla logica umana e si muove con un passo che sa però mettere fretta agli stomaci della popolazione.

 

La notizia per se stessa non lascia commuovere più di tanto chi la legge. La carestia da quelle parti si presenta con il ritmo giusto a chi, nei mondi forniti di tutto punto, ha l’occasione di fare i conti con la propria coscienza, allungando qualche euro di beneficenza per dare una mano ad un paese in difficoltà.

 

Le mamme somale hanno dovuto tirare fuori l’ingegno per fronteggiare la situazione. Nel vuoto della loro carne hanno scovato la trovata vincente. Carestia insegna che ha il senso di una mancanza di grazia, se manca da mangiare sono dolori. La fame è qualcosa di insopportabile. Dopo i primi giorni di dolore ti morde l’anima ed i sensi abituandoti ad uno stato di inedia, non a caso ha una radice comune con fatiscente, un venir meno che va sotto braccio ad una progressiva rassegnazione.

 

Così sembra svilupparsi la saggezza di una attesa di morte che puoi compensare negandole una possibile soddisfazione. Basta attendere che faccia il suo dovere senza rompere in pianti ed opposizioni.  Questa volta le madri somale hanno voluto stravolgere il copione, proponendo ai loro figli una mistura tossica di acqua e detersivo o miscelata con il sale che li porta a sentirsi male. La trovata è inedita ed ha una genialità che sempre si accompagna ad una dose di rischio.

 

Già debilitati, le loro creature potrebbero anche rimanerci stecchiti ma quello è il solo passaporto per farli accogliere in un ospedale dove finalmente gli daranno qualcosa da mettere sotto i denti. La morte resta spiazzata. Se tutto andasse storto non sarà stata lei a dettare i tempi per togliere di mezzo un po’ di bimbi dal Continente africano. Se invece quelle donne avranno avuto la giusta intuizione, dovrà cedere le armi in attesa del prossimo giro.

 

Il veleno ha qualcosa di misterioso nelle trame delle sue gocce. Nasce come un filtro magico amoroso, un intruglio per muovere i cuori da una parte all’altra, una sorta di saliva di Venere che cadendo sugli uomini infiamma le passioni, anche le più recalcitranti all’azione. Poi la morte, sempre lei, gelosa, ha preteso la sua parte dicendo che una bevanda bene arrangiata poteva tornare utile anche alla sua missione.

 

Intanto che la pioggia torni a bagnare i campi della Somalia ridando speranza all’agricoltura, ci sono lacrime di veleno che madri versano nella pancia dei loro figli in modo che possano sognare di far scoppiare le pance di felicità. Quelle donne si muovono d’istinto per il contrappasso, danno malattia per guarire le loro creature da una più grave. Hanno una forza da leoni. Sbranano il male con le fauci del loro amore.