Italia a scuola di musica perché viva l’amore per le note

Un paese senza musica è un paese morto, ne resterebbe afona e sorda la storia ed il futuro, la condanna ad una indicibile tristezza e ad un appassimento dello spirito.

Con la ripresa dell’anno scolastico arrivano puntualmente motivi di polemica o di riflessione sullo spazio da concedere a nuove didattiche più al passo con i tempi a dispetto dell’arretratezza della tradizione e del “si è sempre fatto così”. Così come con il sesso e promuovendo liberalizzazione dai vecchi licenziosi costumi, la Svezia di nuovo brucia tutti sul tempo ribaltando questa volta la tendenza modernista che si sta imponendo ultimamente.

Almeno nelle classi materne si deve tornare all’uso di carta e penna abbandonando computer ed altri strumenti tecnologici da ultimo in gran voga. Carta e penna possono garantire il tempo necessario per la riflessione, la lentezza richiesta per maturare ragionamenti e pensieri che l’immediatezza di un tablet brucia invece sul tempo. Si arriva al traguardo ma non si sa come. Anche l’Unesco è sulla stessa linea e richiama ad esseri accorti a come utilizzare i supporti informatici di ausilio agli studenti.
Sull’altro fronte in Italia è in via di allestimento un concorso per appena 30.216 professori, un’orda di insegnanti che con tutti questi temi si dovranno confrontare sperando possa acquisire rapidamente esperienza in un settore a dir poco nevralgico quanto delicato per la società presente e per quella che sarà.

Si troveranno in un agone più complesso di qualche anno fa. Ad Atene c’era la figura del “grammatista” preposta ad insegnare lettura, scrittura e a far di conto. A fianco ad esso c’era poi il “citarista” che insegnava l’uso della cetra e della poesia, dando riconoscimento e non in via incidentale anche all’arte musicale. Infine al “pedotriba” era il ruolo di formare la gioventù nella cura del fisico. Così fino ai 18 anni.
Oggi le cose sono cambiate, anche i programmi trovano negli stessi docenti motivi di distinguo e di critica. Mesi fa, non un millennio, un professore, nel mentre di una rappresentazione teatrale sul tema del nazismo, ha interrotto clamorosamente l’evento dicendo la sua a proposito di un negazionismo tutto da rispettare.
Anche con questo si dovrà fare i conti, nuove e vecchie tendenze tornano ad incrociare le spade sulla testa delle nuove generazioni da formare.
Scuola, va rammentato, prende origine dal termine greco che indicava il tempo libero da indirizzare allo svago della mente, qualcosa di comparabile all’otium latino. Solo successivamente si è stravolto diventando lo spazio dello studio e dell’impegno formativo. Eppure ci sono momenti in cui i due aspetti sembrano ricongiungersi senza stridore.
Si è conclusa a Orvieto, da giorni, la Settima Edizione del Festival della Piana del Cavaliere. Un moderno mecenate da anni ha dato infatti vita all’orchestra Vittorio Calamani composta da giovani musicisti che nel tempo si alternano nonché ad una Accademia di alto perfezionamento musicale che sviluppa la sua attività nell’arco di un semestre; ed in più, ancora, una serie di master class con docenti di eccellenza, un incontro continuo di energie di talenti di generazioni diverse che si confrontano e che apprendono vicendevolmente l’arte di stare insieme e di arricchirsi culturalmente.

Parliamo di centinaia di giovani che negli anni hanno potuto cimentarsi finalmente su un palcoscenico che non deve restare un ricordo, la nostalgia di un momento mai più vissuto.
Non si tratta delle prove d’orchestra felliniane dove, anche lì dove è richiesta l’armonia, era invece un gran subbuglio. È lo sforzo di essere comunità composta dove a ciascuno è riservato un ruolo ed una responsabilità. Solo quest’anno si sono rappresentati 10 eventi sinfonici, lirici, cameristici e vocali con il coinvolgimento di oltre 130 artisti. Nella serata di chiusura si sono esibiti 30 ragazzi della scuola di Musica di Faenza in un concerto benefico per l’alluvione che nel mese di maggio ha distrutto buona parte degli strumenti di quella scuola. È motivo d’emozione poter ammirare tanti ragazzi che, a fronte di studi musicali a dir poco impegnativi, si dedicano a concertarsi tra di loro per muovere tutti nello stesso tempo con il rispetto che l’esecuzione richiede, assecondando le imbeccate dei maestri che li conducono a questa meravigliosa esperienza d’insieme.

Vedere questa gioventù capace di sacrificio e di bellezza è commovente e nello stesso tempo nasce l’apprensione che non vengano traditi da una società che non sappia riconoscerne il merito e gli sforzi e non li sostenga nel futuro, costruendo opportunità adeguate alla professione musicale. L’auspicio è che possano avere stabilmente delle occasioni di lavoro in orchestre, oltre la più scontata prospettiva dell’insegnamento della materia nelle scuole. Tanta abnegazione e tanta fatica non andrebbe tradita con uno sciogliete le fila non appena usciti da un Conservatorio o similari per mandarli allo sbaraglio nel mondo, vanificando la fatica di anni. Un paese senza musica è un paese morto, ne resterebbe afona e sorda la storia ed il futuro, la condanna ad una indicibile tristezza e ad un appassimento dello spirito.

Da questi giovani di valore potremmo tutti imparare, per prima la politica, a muoverci tutti con maggiore assonanza con il rispetto di una melodia, senza sopraffazioni ed ingerenze, senza urla schiamazzi e sbavature e partiture di comodo. La musica è una palestra di integrazione continua con l’altro, di assist senza sosta, di staffette di attacchi da scambiarsi e di assoli da cedere al compagno vicino di spalla; è un rispettoso mischiarsi con un ordine meraviglioso dove nessuno è lasciato indietro ma si va tutti alla meta. Così sarebbe garantito il risultato di una musica che gioverebbe al nostro paese da troppo non più esempio di bel canto e di attenzione alle note ed a chi le muove con la sensibilità richiesta. Accantonare in un angolo, giocando di sordina, tanta bellezza sarebbe un delitto. Canta che ti passa è un detto che risolve in una faciloneria un problema che resta irrisolto. Sostenere chi canta e suona, per avere un paese migliore, è la cosa da fare. Ascoltare è il nostro dovere.