di Andrea Monda
Pubblichiamo l’intervista al giurista Franco Anelli che appare nel numero odierno de L’Osservatore Romano
Alle molte voci che in queste settimane si sono alternate ragionando sul tema della crisi della società italiana e del ruolo che la Chiesa è chiamata ad assumersi si aggiunge oggi quella di Franco Anelli, illustre giurista e dal 2013 rettore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Il suo contributo punta in particolare l’attenzione sui giovani e sulla loro formazione.
Giuseppe De Rita su queste pagine ha affermato che per il buon governo c’è bisogno di due autorità: una civile e una spirituale-religiosa. Quella civile garantisce la sicurezza, quella spirituale offre un orizzonte di senso. L’uomo ha bisogno di tutte e due le cose. Se invece si esclude una delle due, la società soffre, diventa schizofrenica. In questo sarebbe il ruolo della Chiesa nell’attuale situazione italiana.
Il professor De Rita richiama l’attenzione su un’esigenza antropologica ineludibile se si vuole promuovere una società libera e governarla in modo equilibrato. Il suo è un richiamo importante per immaginare una via d’uscita dallo stato di crisi in cui versano, in tempo di disintermediazione, l’esperienza della democrazia rappresentativa e la stessa idea di politica. Con una comunicazione che si ferma alla superficie dei fenomeni e si rivolge quasi esclusivamente all’emotività individuale e collettiva, aumenta il rischio di perdere di vista i “fondamentali”, come la ricerca di un rapporto reciprocamente rispettoso e collaborativo tra le due differenti e complementari auctoritates. Ognuno, a cominciare dai cattolici, è dunque invitato a esercitare creativamente la propria coscienza storica per ridare visione e slancio al nostro Paese e al progetto europeo. In questo senso l’appello del prof. De Rita ci riconnette a una tradizione culturale e istituzionale nata proprio in Europa dall’incontro fra il cristianesimo e l’imponente lascito della civiltà greco-romana. Il cristianesimo ha infatti saputo accogliere e rielaborare l’eredità greco-romana fino a maturare la fondamentale distinzione tra le sfere del regnum e del sacerdotium: così, facendo riferimento alla risposta data da Gesù sul tributo da riconoscere o no a Cesare (Mc 12, 13-17) e alle parole indirizzate da san Paolo ai Romani sull’atteggiamento da tenere nei confronti delle autorità costituite (Rm 13, 1-2), questa visione ha sempre tenuto in alta considerazione l’esercizio del potere civile, pur ponendo le premesse, secondo le parole di Max Weber, della sua progressiva de-sacralizzazione e laicizzazione. E se anche lo sviluppo di queste intuizioni non è stato lineare — spesso si è cercato di subordinare strumentalmente la politica alla realizzazione di fini sovratemporali o di utilizzare la religione per scopi tutt’altro che spirituali — non si può rimuoverne la matrice cristiana, con buona pace delle forme superstiti di tradizionalismo cattolico antimodernista o, all’opposto, di radicalismo laicista. Ma la distinzione di ruoli e competenze tra l’autorità civile e quella religiosa non comporta l’impossibilità o il divieto di un dialogo sincero e reciprocamente rispettoso, e tanto meno coincide con un’artificiosa separazione tra una “sfera pubblica” e una “sfera intima e privata” nella quale circoscrivere devozione e pratica religiosa. L’orizzonte del senso e l’esercizio della cura della convivenza civile s’incontrano infatti nell’unità della persona ed entrambi agiscono nel mondo e nella storia. Non è solo lecito, ma anzi è auspicabile che i due ambiti “interagiscano” nella realtà e attraverso le persone, perché se si ha sensibilità soltanto per le esigenze materiali spesso non si riesce a soddisfare neppure quelle; al contrario, la valorizzazione delle istanze più vicine alla persona e alla qualità della relazione sociale può metterci in una prospettiva nuova e aiutarci a individuare soluzioni originali alle crisi contingenti, come ha scritto Robert Dodaro, evocando l’immagine agostiniana dello «statista… in grado di giungere a giudizi moralmente retti perché egli governa la città terrena con lo sguardo saldamente fisso ai beni della città celeste».
Quanto al ruolo della Chiesa, Papa Francesco non si stanca di riaffermare con forza che Essa nasce essenzialmente per «annunciare il Vangelo a tutte le genti», pur ricordando l’insegnamento montiniano per cui «l’evangelizzazione non sarebbe completa se non tenesse conto del reciproco appello che si fanno continuamente il Vangelo e la vita concreta, personale e sociale, dell’uomo». Nell’Esortazione apostolica Evangelii gaudium il Papa infatti aggiunge che «nessuno può esigere da noi che releghiamo la religione alla segreta intimità delle persone, senza alcuna influenza sulla vita sociale e nazionale, senza preoccuparci per la salute delle istituzioni della società civile, senza esprimersi sugli avvenimenti che interessano i cittadini».
Si apre qui un grande spazio per l’impegno pre-politico — cioè educativo, culturale e sociale — dei cristiani, nel quale si inscrive anche la missione dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Questo impegno, impostato in modo corretto, deve poi stimolare a “pensare politicamente”, come diceva Giuseppe Lazzati. Nel caso di una realtà come la nostra, si tratta innanzitutto di rafforzare la capacità di andare incontro ai giovani, per comunicare loro con modalità nuove ciò per cui vale la pena studiare e impegnarsi, e ciò che rende affascinanti, oltre allo studio, il rapporto con il prossimo e l’interesse per la cosa pubblica e il bene comune, intesi entrambi non più solo in ottica nazionale, ma globale. Va inoltre fatto ogni sforzo per includere e valorizzare chi nelle nuove generazioni rischia di essere lasciato ai margini. Con questi obiettivi dobbiamo infine interagire di più con le Chiese locali e sparse nel mondo, e con le molte realtà del terzo settore, del volontariato, delle imprese socialmente responsabili e delle istituzioni. Perché soprattutto con l’esempio, cercando di essere fino in fondo una “università cattolica”, possiamo trasmettere un’idea alta e non strumentale della politica, intesa come la più nobile attività degli uomini — di tutti gli uomini — perché capace di realizzare il bene comune, cioè la condizione per il massimo sviluppo di ogni persona.
La società italiana oggi sembra dominata dal rancore. Da dove nasce questo rancore? De Rita dà una sua lettura, quasi un lutto per quello che non c’è stato, una promessa mancata, un futuro che sembra incrinato, perso.
Nel 1984 Norberto Bobbio parlava delle «promesse non mantenute della democrazia», sottolineando — erano gli anni del cosiddetto “riflusso” dall’impegno politico — come molti cittadini, malgrado l’enfasi posta sull’individuo sovrano nelle democrazie liberali, iniziassero a sentirsi sovrastati, isolati e sempre più dimenticati nella lotta di potere fra oligarchie, gruppi e organizzazioni. Questa condizione di frustrazione latente è stata poi resa più grave dal montare di un certo egoismo sociale che ha condotto alla crisi dei corpi intermedi e ha accresciuto la frammentazione del nostro Paese. Per anni però questo disagio crescente è stato sopito dalla residuale condivisione di un certo benessere diffuso. Il malcontento, la disaffezione e l’apatia verso l’intermediazione e la rappresentanza politica sono poi deflagrati con l’ultima grande crisi, sotto la pressione di una comunicazione che ha esasperato la percezione di alcuni problemi oggettivi legati alla sicurezza economica e sociale. Anche se il compito è tutt’altro che facile, ora bisogna impegnarsi per ricreare un clima di fiducia. Ritengo però che non sia possibile “rimettere insieme” i cocci di un passato prossimo, eppur molto lontano, come penso che non ci sia spazio per operazioni che guardano a esperienze trascorse. La storia cammina e il mondo corre, per questo è fondamentale puntare soprattutto sui giovani, sulla loro libertà rispetto a schemi precostituiti e a retaggi ideologici: occorre cioè investire sulla loro voglia di realizzare se stessi e di cambiare la società.
In questa situazione emerge un dato che ha una sua ambiguità, anche inquietante, cioè il dato dell’identità come risposta alla globalizzazione ma una risposta che si colora di chiusura e violenza.
Credo che l’ambiguità del tema identitario, con la pericolosa tendenza a farne elemento di chiusura e di contrasto, si debba sciogliere non “per sottrazione”, ma proponendo una visione più ampia, orientata alla costruzione di una piena, matura e consapevole “identità culturale”. Quando si parla di cultura del resto si tocca un aspetto essenziale dell’umano, in cui si riassume, come si legge nella Gaudium et spes, tutto ciò che «con l’andar del tempo, esprime, comunica e conserva nelle sue opere le grandi esperienze e aspirazioni spirituali, affinché possano servire al progresso di molti, anzi di tutto il genere umano». In questo senso è giusto rivendicare una propria identità culturale e anche raffrontarla, per meglio distinguerla, con quelle altrui. È infatti un fondamentale diritto umano, individuale e collettivo, quello di conservare la memoria viva della propria storia, sfuggendo a forme più o meno “violente” di omologazione. L’identità culturale però non è, come ci ha ricordato Papa Francesco rivolgendosi a un gruppo di giovani a Buenos Aires, «un numero di fabbrica… un’informazione che posso cercare in internet per sapere chi sono», è piuttosto l’appartenenza a qualcosa di vivo che si muove nella storia e nel mondo globalizzato, incontrando continuamente altre culture. La forza di una tradizione culturale sta nella capacità di dialogare e integrare altre persone senza perdere ciò che in essa è realmente essenziale. Per questo motivo brandire l’identità come uno scudo è un segno di debolezza; infatti non stupisce scoprire oggi tra gli strenui difensori dell’italianità persone che fino a pochi anni fa la denigravano. La questione delle identità storiche che diventano particolarismi nazionalistici si connette con le gravi responsabilità di chi, anche nelle istituzioni comunitarie, ha sostenuto una concezione minimalista e lacunosa dell’identità europea, tralasciando di valorizzare l’autentica origine dell’Europa, nata da una plurisecolare circolazione e trasmissione di idee, persone, principi. Soltanto ora forse si comprende quanto sarebbe stato utile valorizzare le radici comuni, alle quali per incontestabile dato storico appartiene la dimensione cristiana, e con esse la capacità di comporre tradizioni differenti in nuove sintesi. Le università europee hanno assolto in questi decenni un ruolo trainante nel definire una nuova idea di cittadinanza. Hanno coltivato sempre più intense relazioni nella ricerca, favorito la circolazione dei docenti e gli scambi di studenti, creato percorsi formativi internazionali: hanno cioè contribuito in modo decisivo a creare generazioni di “nativi europei”, giovani destinati, per formazione, cultura, progetti di vita, propensione alla mobilità, a vivere in una dimensione sovranazionale.
Il Papa propone ormai da anni il tema anzi il metodo della sinodalità, cioè il camminare insieme, il conoscersi, il fare qualcosa insieme, alto e basso che si intrecciano armoniosamente. Si avverte però un po’ di fatica a capire bene come realizzare questa sinodalità all’interno della Chiesa e della società, come mai?
Ogni cambiamento di metodo richiede un tempo di adattamento e un lavoro per superare la tendenza a replicare processi che ci fanno sentire più sicuri. Sinceramente non penso di poter dare suggerimenti su questo punto, in particolare riguardo alla sinodalità all’interno della Chiesa. Posso però testimoniare che anche nel governo di un ateneo e nella partecipazione a organismi interuniversitari, come la Federazione internazionale delle università cattoliche, ogni volta che si riesce a far dialogare e interagire le diverse soggettività, gli interni e gli esterni, i giovani e i meno giovani, le indicazioni che giungono non sono quasi mai scontate e spesso aiutano a lavorare meglio e con più consapevolezza.
Quando si dice “Chiesa italiana” può scattare l’automatismo per cui si pensa alla Cei o al Vaticano, ma la Chiesa non è né l’una né l’altro, la Chiesa è il popolo di Dio. E allora quale può essere il ruolo del popolo cattolico in questa situazione critica dell’Italia?
Occorre innanzitutto restituire dignità al valore dell’impegno politico come dimensione dell’umano e come modalità di contributo al discernimento dell’interesse comune. Bisogna poi individuare, forse con maggior convinzione, le priorità per cui valga la pena battersi in quanto cittadini italiani e cattolici europei, anche ricercando il consenso di persone che non appartengono alla Chiesa. Una presenza rinnovata, più definita e riconoscibile dei cattolici nella politica italiana potrebbe essere guardata anche da molti “laici” con simpatia perché in vari settori si percepisce un’aspettativa verso l’emergere di progetti e metodi nuovi che, rompendo con gli schemi del passato e distinguendosi dai cortocircuiti del presente, interpretino i profondi cambiamenti in atto. Non saprei dire, naturalmente, quale forma dovrebbe assumere un tale impegno, ma credo sia definitivamente superato il tempo dei velleitari tentativi di rivitalizzare esperienze gloriose ma inevitabilmente trascorse. Ritengo invece che sia giunto il momento di elaborare visioni dinamiche e complessive del Paese che sappiano puntare davvero sulle nuove generazioni. In questa direzione dall’Università Cattolica, che è nata dall’ispirata iniziativa di padre Gemelli come programma culturale rivolto a un mondo cattolico allora relegato ai margini del dibattito, e che nella sua ormai centenaria storia ha attraversato le turbolenze e coltivato le speranze del ’900 e di questo primo scorcio di millennio, può giungere un contributo in termini di riflessioni, spunti e idee utili per tradurre in proposte concrete e convincenti l’aspirazione al bene comune.