La musica inevitabile del presente: gli Autechre alla Biennale

Venezia, 27 ott. (askanews) – Prima una nebbia bianca, talmente luminosa da sembrare accecante, poi il buio pressoché totale, quando lo spettacolo inizia a imporre il suo ritmo al Teatro alle Tese dell’Arsenale. Il resto è una possibile storia dell’evoluzione della musica elettronica, nonché una forma di riflessione – potremmo scrivere anche di meditazione, se non sembrasse troppo ossimorico – sulla “necessità”, in senso filosofico, dei suoni che per 75 minuti hanno riportato sul palco gli Autechre, il duo inglese composto da Ron Brown e Sean Booth che ha lasciato un’impronta profondissima nel mondo della IDM. La Biennale Musica 2023, dedicata al suono elettronico e alla “Micro-music”, dopo il Leone d’Oro Brian Eno ospita quindi un altro concerto di grande richiamo, e le aspettative non sono andate deluse.

Nell’oscurità, senza particolari punti di riferimento spaziali, la musica ha la forza e l’occasione di prendersi tutto lo spazio possibile, ed è uno spazio ampio, profondo, carico di possibilità e opportunità. La linea musicale degli Autechre è pulita, elegante, i suoni, anche i meno convenzionali, trovano il modo di inserirsi nella struttura dei pezzi, che è complessa, ma spesso riesce a mantenere una vocazione di accessibilità. Cosa le prime sensazioni che arrivano al pubblico sono quelle di un grande affresco elettronico che si appoggia molto di frequente al ritmo, ai bassi, alla ripetizione. Come se fossero i rumori a mostrarsi come possibile materia prima di un risultato che, a tutti gli effetti, è musica, anzi, la sensazione è che ci sia proprio un desiderio di fare sì che questa musica sia per quanto possibile sciolta dagli accidenti del mondo. La seconda sensazione è che la musica che esce dai computer degli Autechre sia quella di una grande indagine su tutti i possibili suoni, quindi i suoni del mondo, per come li conosciamo e non li conosciamo. Da qui al sentire che questa musica sia un’espressione della necessità, ossia che diventi in un certo senso musica inevitabile, il passo è breve e naturale da compiere.

Più ci sia addentra nello spettacolo, più ci si accorge del progressivo formarsi di qualcosa di più riconoscibile, più ballabile. Che però non rinuncia alla vocazione di essere terreno fertile per l’idea di una musica assoluta, per certi versi piacevolmente aliena. Come se quella che viene suonata a Venezia possa essere una versione meno allucinata e più inclusiva della colonna sonora del film “2010 – Odissea nello spazio”, quando l’astronauta Bowman parte per il suo viaggio tra le stelle verso una nuova forma di vita. Ecco gli Autechre sembrano agire le stesse dinamiche di viaggio e perdita dei confini dello spettacolo, salvo poi, dopo avere lasciato respiro al pubblico, tornare a spingere su quella forma si accelerazione che è un po’ il loro marchio di fabbrica ed è anche una sorta di tappetino musicale per tutto il nostro tempo di continua digitalizzazione e costante incertezza. Una musica che, da questo punto di vista, diventa anche una forma di conoscenza diretta, quella basata sul corpo e sulle prime sensazioni che certi contatti possono provocare. Per questo, anche se non siamo esattamente in un contesto dance – ma ci si arriva anche lì, nella preziosa bulimia creativa dello spettacolo -, ballare a un certo punto sembra l’unica cosa da fare, l’unico modo per mettersi in allineamento con la narrazione ambiziosa dei due musicisti e la dimensione di mondo chiuso che il concerto ha creato.

Eppure la musica degli Autechre non è fatta per ignorare il mondo fuori, le sue sconvolgenti tragedie e violenze, oltre che la catastrofe climatica incombente, bensì per il contrario, per fare da sfondo a tutte queste situazioni insostenibili o estreme e fornirci una sorta di strumento per affrontarle senza infingimenti, ma anche senza nascondersi. Perché insieme con i pezzi che attraversano lo spazio della grande sala immersa nel buio, arrivano anche le angosce, i dilemmi, le guerre. C’è una musica per il nostro tempo insomma, che parla di noi senza mai citarci, quasi senza mai neppure guardarci – come noi in sala non possiamo vedere i due artisti – ma provando a prendersi cura lo stesso di tutti. Questo sembra dire il finale del concerto e noi possiamo, anzi vogliamo, crederci con tutte le forze. (Leonardo Merlini)