L’attacco delle milizie di Hamas a Israele dalla Striscia di Gaza, con il suo carico di morte, distruzione, di rapimenti indiscriminati di cittadini israeliani ha ricevuto una condanna unanime dalla politica nazionale e europea dall’intero Occidente. Il riconoscimento del diritto di Israele alla difesa proporzionata, accompagnato dalla solidarietà e dalla vicinanza a Israele, costituisce un sostegno in questo delicato momento al Paese che ha subito l’attacco, e allo stesso tempo un avvertimento volto a scongiurare ogni tentativo di escalation e di intromissione di forze esterne alle due parti in conflitto.
Nel contempo questo nuovo riesplodere del conflitto irsaelo-palestinese offre molti motivi di riflessione.
Una delle domande che viene spontanea è come sia stato possibile un attacco così imponente, fatto da commando armati e evidentemente ben addestrati, e da un ingente lancio di razzi, provenienti da un territorio così esiguo e sottoposto a controllo, come quello di Gaza. Com’è che Hamas ha potuto lanciare l’attacco più significativo subito dagli israeliani negli ultimi 50 anni, senza che l’imponente apparato di sicurezza e di intelligence israeliano ne abbia avuto sentore?
Inoltre, vi sono aspetti oggettivi di politica internazionale da tenere presenti, anche se non ne condividiamo le posizioni. Ci sono i Paesi arabi e la più ampia e influente cerchia dei Paesi musulmani, che pur con sfumature diverse, con maggiore o minore moderazione, addossano a Israele la responsabilità di quanto accaduto a causa – a loro dire – delle sue ripetute provocazioni e della privazione dei diritti dei palestinesi. Anche se va evidenziato il fatto che Arabia Saudita ed Egitto sono i Paesi che più mettono in guardia contro il rischio di un’escation del conflitto. Tutto il mondo arabo appare unito come non mai nel chiedere la cessazione delle ostilità da entrambe le parti e il ritorno alle trattative per la soluzione a due stati.
C’è in questa fase – altro fattore non trascurabile – una situazione di acceso confronto, che produce anche situazioni di stallo, nella politica e nelle istituzioni americane, legata al ruolo degli Usa nel nuovo mondo che si sta plasmando in questo tempo, testimoniata anche dalle dimissioni senza precedenti nella storia degli Stati Uniti dello speaker della Camera, che fa seguito a una mancanza di iniziativa della Casa Bianca rispetto alla soluzione del conflitto tra Israele e Palestina.
Un vuoto che la Cina si è preoccupata di colmare negli ultimi tempi, intensificando i rapporti con lo stato d’Israele e con l’Autorità Nazionale Palestinese il cui presidente Abu Mazen, lo scorso 14 giugno è stato in visita in Cina, ricevuto da Xi Jinping con tutti gli onori. La Cina, come al solito, è silente, ma fa la differenza negli equilibri.
E così pur con l’appoggio di tutto l’Occidente, Israele si scopre vulnerabile e isolato in un mondo che sta avendo sempre di meno l’Ovest come proprio baricentro. Questo nuovo conflitto ci ricorda che non c’è altra via per affermare sia la sicurezza di Israele, sia il diritto del popolo palestinese ad avere un proprio stato, che la via della cessazione della guerra e del ritorno ai mezzi della diplomazia e della politica, se necessario anche aggiornando la composizione dei mediatori internazionali.
Di fronte a questa nuova ondata di violenza, in particolare l’Occidente è chiamato ad archiviare dottrine e visioni che in passato hanno avuto l’effetto di allontanare la pace non solo dalla Terra Santa ma da gran parte del Medio Oriente. E che, alla prova dei fatti, non hanno certo contribuito a rafforzare la sicurezza di Israele, per il carico di distruzione e di risentimento che hanno sparso attorno ai suoi confini. Per adottare al loro posto una strategia che abbia concretamente a cuore un futuro di pace per Israele e Palestina, a suggello di un più generale accordo di coesistenza pacifica fra le Potenze di questo XXI secolo.