La Turchia di Erdogan, attore ambiguo del Levante.

L’ambizioso progetto del Sultano è quello di ridare alla propria nazione lo status di potenza regionale, mediterranea e mediorientale, e di araldo moderno dell’Islam. Ha un solo vero nemico: l’Iran sciita.

Confermato al vertice dello Stato, anche se non plebiscitato, Recep Tayyip Erdogan ha davanti a sé alcuni anni per completare il proprio disegno ormai sviluppato progressivamente in un ventennio di ininterrotto potere e così entrare nella storia della Turchia e finanche nel Panteon della Patria. L’ambizioso progetto, ormai evidente, è quello di ridare alla propria nazione lo status di potenza regionale, mediterranea e mediorientale, e di araldo moderno dell’Islam, riconosciuto come tale dall’intero mondo sunnita. Questo sogno neo-ottomano viene declinato attraverso una azione politica internazionale quanto mai complessa e non sempre intelligibile. Assai ambigua ma alquanto efficace. Anche rischiosa, però. E non è detto, dunque, che possa alla fine conseguire tutti gli obiettivi immaginati.

La Turchia è membro dell’Alleanza Atlantica. Di rilievo, sia per la sua posizione geografica assolutamente strategica sia per le dimensioni del suo apparato militare (il secondo in ambito NATO). Membro talmente importante da potersi consentire finanche qualche sgarbo all’alleato americano (l’unico che in realtà ad essa importa davvero) come quando ha acquistato dai russi il famoso sistema di difesa missilistico S-400, o da imporre una studiata dilatazione dei tempi prima di fornire il suo assenso all’ingresso nell’Alleanza di Finlandia e Svezia.  Importante agli occhi di Washington anche per la sua ostilità conclamata al regime iraniano, per motivi religiosi, ideologici, territoriali, politici. Ogni sua mossa va sempre considerata e valutata alla luce di questa rivalità.

Così è per il sostegno fornito, non da oggi, ad Hamas. Un sostegno consistente, politico e finanziario: i principali esponenti del movimento terrorista a cominciare dal capo Ismail Haniyeh viaggiano con passaporto turco, garantendo dunque loro una protezione non indifferente; le casse del movimento sono state riempite da Ankara con almeno 300 milioni di dollari all’anno a partire dal 2010. Sostenere attivamente il sunnita Hamas significa per Erdogan tenerlo sufficientemente lontano, o almeno non troppo vicino, al regime sciita insediato a Teheran.

L’obiettivo dell’Iran è come noto la cosiddetta “Mezzaluna sciita”, ovvero quel collegamento continuo fra i suoi territori e il medio oriente mediterraneo che ne rafforzerebbe lo status di primattore regionale oltre a favorire l’incuneamento dello sciismo fra i fedeli sunniti. Quello del Sultano di Ankara è esattamente impedirne la realizzazione. Ponendo dunque il proprio ombrello protettivo sui palestinesi e, con la “scusa” di dover contenere i “terroristi” interni annidati nel PKK curdo (ovviamente aiutato dagli iraniani), controllando militarmente alcune aree della Siria (alleata dell’Iran) e dell’Iraq settentrionale (pure esso sottoposto alla forte influenza iraniana).

Per altro verso, sostenere accesamente Hamas, con un vocabolario eccessivo ma chiaro per le masse popolari islamiche, significa contrastare il troppo timido e mai reale supporto arabo al popolo di Palestina ponendosi così ai loro occhi alla guida della riscossa musulmana nelle terre che furono parte del grande e potente impero ottomano. In questo modo insidiando la leadership politica e spirituale dei sauditi. Questa ambiziosa concorrenza con Riad però deve essere gestita con grande accortezza, essendo la monarchia saudita tuttora stretta alleata di Washington (anche se gli sviluppi che potrà prendere la nuova iniziativa BRICS+ di cui l’Arabia è partecipe, ma anche l’Iran, potrebbero in futuro segnare una svolta clamorosa negli assetti geopolitici planetari: ma non è un tema immediato, c’è tempo – ragiona Erdogan – per osservare e valutare le mosse e le scelte che eventualmente verranno effettuate in quel contesto, tuttora un po’ confuso e magmatico).

L’alleato americano, è noto, ha puntato molto sui cosiddetti Accordi di Abramo fra Israele e alcuni stati a guida musulmana, ai quali avrebbe dovuto a breve associarsi anche l’Arabia Saudita. Nella prospettiva pan-islamica turca se da un lato essi rafforzerebbero il rivale saudita dall’altro allontanerebbero ulteriormente l’Iran da qualsiasi possibilità di influenza regionale, che come detto rimane per Erdogan l’obiettivo prioritario. E anche il risultato positivo per Israele che da essi deriverebbe sarebbe controbilanciato dall’accennata ricaduta negativa per gli ayatollah e per le loro ambizioni territoriali e religiose.

E comunque – ritiene Erdogan – l’iniziativa di Hamas (mai denominata “terroristica”) ha avuto il duplice pregio di allontanare l’Arabia dagli Accordi di Abramo, almeno per un certo tempo, creando così problemi non previsti a Mohammed bin Salman, offrendo per contro alla Turchia e al suo leader un visibile palcoscenico di fronte al mondo sunnita.

La mattanza del 7 ottobre ha assestato un duro colpo a Israele e la cosa a Erdogan non dispiace affatto. Con lo Stato della Stella di David i rapporti sono tesi o interrotti a seconda dei momenti sin da quando, nel 2010, uno scontro sul mare di fronte alla striscia di Gaza fra la marina israeliana e la “flottiglia della libertà” ivi inviata da una ONG turca (con espressa autorizzazione dell’allora primo ministro Erdogan) allo scopo di forzare il blocco navale predisposto al tempo da Gerusalemme provocò la morte di dieci attivisti imbarcati sulla nave principale della flottiglia.

Eppure, al fondo, con Israele la rottura definitiva non potrà esserci, non foss’altro per via del comune legame con gli Stati Uniti. Ma anche perché, talvolta, gli interessi possono coincidere, e in questi casi la politica richiede malleabilità, della quale Erdogan ha fatto sfoggio già numerose volte nel corso della sua carriera. E i tempi della lunga crisi del Nagorno-Karabach, in un teatro che guarda a oriente e che quindi coinvolge il nemico iraniano, lo hanno dimostrato: solo poche settimane prima del 7 ottobre l’Azerbaigian ha chiuso la partita conquistando la regione contesa con l’Armenia, non più adeguatamente supportata dalla Russia ma sostenuta dall’Iran. Gli azeri per contro hanno ricevuto aiuto militare dalla Turchia ma pure, guarda caso, da Israele: Ankara e Gerusalemme si sono così ritrovate dalla stessa parte del campo contro un alleato del comune avversario persiano.

Le cose in quella parte del globo appaiono sempre diverse da come in realtà stanno. Stati Uniti e Israele da una parte (e magari anche la UE, anche se marginale in tutto il quadro); mondo islamico sunnita dall’altra. È fra questi due poli che Erdogan deve muoversi, con un nemico comune, in mezzo: quell’Iran sciita che vorrebbe contrastarne il disegno neo-imperiale sul Levante. Forse è questa la chiave di lettura con la quale cercare di interpretare le ambigue mosse di Recep Tayyip Erdogan.