Le aree di crisi mondiali e la centralità degli USA

Biden il problema principale forse lo ha in casa, in una America profondamente divisa. E la sola ipotesi che alla Casa Bianca possa ritornare Trump mette piombo nelle ali della diplomazia USA.

Dall’inizio della sua presidenza Joe Biden è oggetto di facili ironie legate alla sua età avanzata e agli effetti che questa genererebbe sulla sua impegnativa attività. In realtà, al contrario, il vecchio Joe sta dimostrando capacità ed energie associate a grande esperienza e a una convinta assertività valoriale che si stanno dimostrando fondamentali in questa tanto difficile e perigliosa fase della Storia. Lo stiamo verificando anche in questi giorni così drammatici.

Mettiamo in fila gli eventi dell’ultimo periodo. 

L’assalto terroristico di Hamas ha riacceso i fari sulla questione palestinese, quasi dimenticata da tutti nell’ultimo ventennio, dalla fine della seconda intifada nel 2005, salvo fugaci ritorni di attenzione durante le periodiche recrudescenze dello scontro con Israele, in Cisgiordania e soprattutto a Gaza. Grave errore non considerarla con l’attenzione necessaria, in quanto essa è il fulcro di tutta l’instabilità mediorientale, da ormai oltre 70 anni.

L’incontro a Pechino fra Xi Jinping e Vladimir Putin in occasione delle celebrazioni cinesi per il decimo anniversario dal varo della Belt&Road Initiative ha confermato – in aperto contrasto con gli USA – lo “stretto coordinamento strategico” fra Cina e Russia, anche se la mancata riaffermazione della famosa “amicizia senza limiti” ha dimostrato una volta di più che la partnership è disequilibrata, tutta in favore del Dragone.

Facendo leva su una alternatività culturale al mondo occidentale e intrinsecamente convinti della sua inevitabile decadenza, nonché sulle difficoltà che la svolta ambientalista occidentale provoca ai paesi in via di sviluppo che necessitano di fonti energetiche immediate, Cina e Russia hanno consolidato il legame con gli altri partner che costituirono l’originario neologismo BRICS (ovvero Brasile, India, Sudafrica) e sono riusciti ad associare altre sette importanti nazioni, che dal prossimo gennaio diverranno parte integrante del nuovo coordinamento BRICS+.

Contemporaneamente Putin, molto attivo in questa fase, è andato in Corea del Nord ove col feroce dittatore Kim Jong-un ha siglato un accordo di cooperazione politica e militare alquanto inquietante e nell’immediato volto a rafforzare il volume di munizionamento dell’esercito moscovita impegnato in Ucraina.

Da quelle parti, che una volta chiamavamo Estremo Oriente, permane alta la tensione intorno a Taiwan, ritenuta da molti la possibile causa scatenante un reale conflitto mondiale nel caso in cui Pechino ne decidesse l’invasione e gli Stati Uniti rispondessero alla medesima facendo valere la loro superiorità militare sugli oceani.

Eventi apparentemente minori come la conquista del Nagorno Karabach da parte dell’Azerbaigian ai danni degli armeni, costretti ad un esodo biblico, ricordano alla comunità internazionale quanto numerosi siano i punti di attrito nel mondo pronti ad esplodere con inaudita violenza.

Infine, last but not the least, il conflitto in Ucraina, al momento apparentemente in sonno ma in realtà ancora attivo e devastante, per il quale non si intravvede alcuna via d’uscita e che sta da oltre un anno e mezzo accentuando lo scontro anche culturale fra occidente e “mondo russo” minacciando di espandersi ad altre aree del vecchio continente, nello specifico nei Balcani, ove la tensione sta crescendo fra Serbia e Kosovo e all’interno della Bosnia Erzegovina.

Uno scenario globale cui Biden sta dedicando tutta la sua esperienza e abilità diplomatica in un misto di empatia con gli alleati aggrediti e determinazione nel far loro comprendere (e se necessario imporre) che la via maestra alla fine è sempre il negoziato e che comunque l’uso esclusivo delle armi non è risolutivo e non può varcare certe soglie. Il sostegno militare non manca (ed è cresciuto nel tempo anche in potenza, come dimostra la recente consegna a Kiev di missili ATACMS a lunga gittata) ma non può oltrepassare limiti insuperabili.

Così al governo di Tel Aviv Biden ha espresso solidarietà e garantito appoggio esplicito, oltre che sostegno deterrente facendo arrivare in zona due portaerei, e dunque riconducendo gli Stati Uniti nel Mediterraneo, il mare che dai tempi del carismatico ma meno esperto presidente Obama essi parevano aver dimenticato. Ma ha pure portato un messaggio chiaro: non commettete l’errore che abbiamo fatto noi dopo l’11 settembre con la guerra in Iraq senza averne preparato il dopo.

Quello che il presidente americano sta evidenziando è che lo scontro in atto è fra democrazie e autocrazie (o dittature). Le libertà e la democrazia sono gli asset valoriali che illustrano la civiltà occidentale moderna senza dei quali essa scomparirebbe, soccomberebbe. E dunque per essi vale la pena di battersi. Ma sempre rimanendo con i medesimi coerenti. Certo, sono valori che impongono una fatica (la ricerca del consenso democraticamente espresso in libere elezioni dai propri popoli) che agli autocrati viene risparmiata, consentendo loro una gestione delle proprie politiche senza vincoli di consenso. Ma proprio perché è sui valori che la battaglia si sviluppa a essa non si può rinunciare. Entro però i margini del consentito, anche nelle guerre.

Così, sia a Zelensky sia ora a Netanyahu sono stati indicati i limiti da non oltrepassare. Scontando la non completa accondiscendenza dei due alleati ma chiarendo altresì che gli Stati Uniti aiutano ma non subiscono. Così, anche, a paesi formalmente democratici come India, Brasile, Argentina, Sudafrica, che pure hanno aderito a BRICS+, la questione del rapporto con le autocrazie verrà fatta presente. L’India del resto è parte dell’alleanza QUAD con Giappone, Australia e gli stessi USA nella regione dell’indo-pacifico, promossa in funzione anticinese (a conferma di quante contraddizioni vi siano nel progetto BRICS+ e di quanto complicata sia divenuta la geopolitica del nuovo mondo multipolare).

In tutto ciò bisogna però riconoscere che Biden il problema principale forse lo ha in casa, in una America profondamente divisa; un’America che ha vissuto giornate drammatiche come quella del 6 gennaio 2021 e che ora, con l’anno elettorale che sta per aprirsi, potrebbe viverne di utlteriori, ancor più gravi, per le sue fratture interne. Tutto ciò indebolisce l’azione esterna del Presidente. Anche solo l’ipotesi che alla Casa Bianca possa ritornare Donald Trump mette piombo nelle ali della diplomazia USA, alle prese con interlocutori, sia quelli alleati sia quelli avversari, che si domandano: ma ci sarà ancora sleepy Joe fra un anno e poco più o tornerà colui che gli ha affibbiato quell’irriverente soprannome?