L’educazione alla democrazia contro la politica volgare

Volgare perché priva di un substrato valoriale in grado di offrire la giusta base a programmi e proposte svincolate da mere logiche elettorali. Ed altresì volgare perché rifiuta il dialogo.

L’avvento della comunicazione televisiva e di quella, capillare, realizzata attraverso la rete, ha sicuramente cambiato il modo di “fare politica” e la percezione degli elettori della proposta politica. Tuttavia, il tipo di interazione globale sviluppato attraverso questi nuovi mezzi di comunicazione degenera non solo in un inutile chiacchiericcio ma nell’aggressione, nell’insulto e, talvolta, nella minaccia. 

Si tratta di un fenomeno che si verifica anche nei media più tradizionali e consolidati, come televisione e radio, che possono dar vita a discussioni caratterizzate perfino dall’aggressione verbale e dall’insulto. Siamo di fronte a quella che Maurizio Bettini definisce “comunicazione volgare”. Ebbene, la comunicazione politica spesso degenera in una comunicazione volgare, espressione di una politica volgare. Di una politica ridotta a merce, come avvenuto con il berlusconismo. Di una politica controllata dalle logiche del marketing. 

È una politica volgare perché priva di un substrato valoriale in grado di offrire la giusta base a programmi e proposte che siano svincolate da mere logiche elettorali. È una politica volgare perché rifiuta il dialogo, che presuppone apertura e disponibilità all’altro e, soprattutto, capacità di mettersi in discussione. Paradossalmente, durante la campagna elettorale, il legislatore impone il dialogo e il confronto, che, tuttavia, quando ci sono, si svolgono spesso all’insegna di un linguaggio sciatto e aggressivo, anche in quelle occasioni e in quegli spazi comunicativi che un tempo richiedevano almeno il possesso della sintassi.

Il problema di fondo è l’assenza di una educazione alla democrazia. Che significa: educazione alla cittadinanza, che richiede il passaggio da una cultura da sudditi – tipica del populismo – orientata verso i benefici che l’elettore o gruppi di interessi sperano di trarre dal sistema politico, alla cultura partecipante, propria di quegli elettori che considerano fondamentale impegnarsi nell’articolazione delle domande e nella formazione delle decisioni.

Ritornano attuali le parole di Aldo Moro che, nella seduta di giovedì 13 marzo 1947 in Assemblea costituente, ricorda la funzione pedagogica della Costituzione per un popolo diseducato alla libertà e alla convivenza civile dopo vent’anni di fascismo. Moro richiamava, in tal senso, l’importante ruolo dei partiti auspicando il superamento delle divergenze ideologiche. Ebbene, a quasi ottant’anni da quel discorso e con una Costituzione che garantisce i diritti civili, si tratta di combattere l’apatia civica, che si manifesta con il crescente astensionismo. In questa direzione, il partito dovrebbe ritornare ad educare alla cittadinanza. Ma prima è necessario che riscopra la sua originaria vocazione di anello di congiunzione tra gli elettori e le istituzioni democratiche rappresentative.

Diventa fondamentale, allora, ripensare il partito, quale formazione sociale di cui all’articolo 2 della Costituzione. Un partito che formi il cittadino. Un partito che educhi a quei valori universali su cui si ispira il personalismo cattolico, quali la centralità della persona e la solidarietà. Un partito che sia democratico al suo interno e, quindi, non sia espressione di un capo. Norberto Bobbio ci insegna che “L’avanzata della democrazia si misurerà dalla conquista degli spazi ancora occupati da centri di potere non democratico”. E la personalizzazione del partito è fenomeno attuale che indica la presenza di centri di potere non democratico.