L’interesse di partito non può prevaricare la libertà di coscienza

La legittimità del centro sta proprio nella superiore aspirazione alla temperanza di valori e realtà, per non scivolare, anche solo involontariamente, nella logica di una libertà senza equilibrio e senza tolleranza.

Non ci può essere un futuro più umano se la politica va oltre se stessa e pretende di superare il limite ad essa connaturato. Aderire a un partito non significa, né oggi né mai, consegnarsi alla sua signoria su grandi temi afferenti alla coscienza personale, finanche immaginando che l’azione politica, per esempio, obblighi a un vincolo di mandato a riguardo di come concepire e disciplinare il passaggio dalla vita alla morte. Quando questo accade, o rischia di accadere, i cattolici democratici non possono girare la testa dall’altra parte.

Giorni fa, nella ricorrenza della fondazione del Partito popolare {18-19 gennaio 1919), abbiamo ricordato la figura di Luigi Sturzo. Certo, quest’anno sarà bene non dimenticare che egli fu costretto, esattamente un secolo fa, a prendere via dell’esilio. 

Fu l’esito di una battaglia che ebbe nel congresso di Torino del 1923 il momento di massima chiarificazione. In quella circostanza, la scelta dei Popolari di passare all’opposizione del governo Mussolini poggiò sulla denuncia della concezione dello Stato etico, necessariamente pervasivo e autoritario. Sturzo motivò splendidamente le ragioni dell’antitotalitarismo. Dunque il  “partito della libertà”, formula culminante della esperienza democratico cristiana, nasce da questa sorgente ideale che obbliga al rifiuto della visione statolatrica. 

Noi vogliamo tenere fede a questa pregiudiziale, morale e politica, che anzitutto Sturzo ha lasciato in eredità ai Popolari. 

Oggi siamo giunti al punto di dover riaffermare la natura della libertà, ostile di per sé ad ogni assolutizzazione, contro l’artificio prevaricatore di una libertà di tipo giacobino, esito dell’ideologismo che non ammette il dubbio o la riserva, tanto meno il dissenso. Il caso esploso in Veneto a causa del rifiuto di Anna Maria Bigon, consigliera regionale del Pd, di approvare la “legge Zaia” sul fine vita, ha rivelato l’assurdo pregiudizio che subordina platealmente all’interesse di partito la maggiore delle libertà, quella della coscienza. 

È accettabile una censura in nome di un’etica di partito? Siamo al paradosso. Si discute addirittura di provvedimenti disciplinari per il fatto che la Bigon avrebbe dovuto calibrare il suo dissenso, in pratica accettando, con l’uscita dall’aula al momento delle votazioni, di consegnarlo a una dimensione di pura testimonianza, senza alcuna incidenza sull’esito della deliberazione.

Se fosse una questione tutta interna al Pd, potremmo fare a meno di discuterne. È però evidente che l’atteggiamento di un partito, per altro essenziale nel quadro di un sistema alla costante ricerca di nuove regole di equilibrio, è destinato a riverberarsi sul complesso della vita democratica.  Stupisce la leggerezza con la quale il gruppo dirigente del Nazareno sia rimasto a guardare gli sviluppi di una iniziativa che ruotava attorno alla rivendicata adeguatezza della Regione a legiferare, anche in mancanza di una legge cornice del Parlamento, su una materia a dir poco delicata. Stranamente, si contesta l’autonomia differenziata e si avalla, al tempo stesso, un’operazione al cui confronto la differenziazione territoriale alla Calderoli appare un esercizio di politica naïve.

Viene anche da dire, in conclusione, che la legittimità del “centro” nello spazio della democrazia sta proprio in questa superiore aspirazione alla temperanza di valori e realtà, per non scivolare, anche solo involontariamente, nella logica di una libertà senza equilibrio e senza tolleranza. La nostra “libertas” mantiene aperto lo spazio della coscienza, non è l’orpello di una volontà di omologazione in ossequio a ciò che appare o pretende di apparire un simbolo di progresso.