[…] Sturzo fu eletto nel 1899 consigliere comunale di Caltagirone e poi nel 1905 pro-sindaco, e ancora nel 1915 vice-presidente nazionale dell’Anci), confluiva peraltro un’altra istanza di rinnovamento del cattolicesimo italiano. Nella seconda metà dell’Ottocento erano sorte nuove congregazioni religiose di vita attiva. Dentro il perimetro urbano, questi nuovi religiosi si spingevano ancora a questuare, ma non più per portare in convento l’elemosina ricevuta, bensì per ridistribuirla in città, ai poveri nei sobborghi e nelle periferie. Anche nella Sicilia di Sturzo era così: il beato Giacomo Cusmano a Palermo, padre Annibale Maria Di Francia a Messina, il cappuccino Angelico Lipani a Caltanissetta erano esponenti di quel rinnovamento. Sturzo, a sua volta, recuperava quella spinta caritativa, rivolta alla città, ma la ammodernava, cioè la coniugava con «le cose nuove», con le nuove realtà di cui parlava Leone XIII nella sua enciclica: così fondò a Caltagirone una cassa rurale e artigiana per combattere la piaga dell’usura, promosse le cooperative operaie (la sughereta nel bosco di Santo Pietro), istituì una delle prime scuole di formazione agraria in Sicilia, costituì associazioni di mutuo soccorso. Insomma, mise le mani in pasta, come si suol dire: e quelle mani erano le stesse che sgranavano il rosario e sfogliavano il breviario.
La spiritualità civica manteneva un marcato profilo evangelico. Per questo, il 17 dicembre del 1918, in una delle ultime riunioni preparatorie prima della fondazione ufficiale del Partito Popolare, a Roma, Sturzo disse ai suoi collaboratori che dovevano scendere nell’agone politico non con stendardi e con gonfaloni, ma con «il vangelo nascosto in petto». Riecheggiava, in questa affermazione, la lezione dell’anonimo autore della Lettera a Diogneto, secondo cui i cristiani sono l’anima del mondo. Ma come l’anima nel corpo, essi rimangono invisibili ancorché uniti al corpo stesso, cioè al resto dell’umanità.
È da questo orizzonte che deriva l’idea di aconfessionalità del Partito Popolare: un’idea che non coincideva con l’odierna nostra concezione della laicità (alla francese: come contrapposizione alla fede), perché con l’aconfessionalità Sturzo non chiedeva ai sodali del suo partito di rinunciare alla loro fede cristiana, ma semmai di fare politica per il bene di tutti, anche di chi cattolico non era. Gabriele De Rosa ha definito questa opzione come «l’utopia di Luigi Sturzo». Era la maniera sturziana, non clericale e nemmeno teocratica, di interpretare il motto di Pio X : instaurare omnia in Christo. Instaurare, appunto. Non restaurare. Non c’era, in Sturzo, nessuna inclinazione reazionaria, così come non ce n’era nessuna rivoluzionaria. Non si trattava, per lui, di lanciare la riconquista cattolica della società, ma di ridestare l’attitudine sociale e civica del cattolicesimo, la sua indole storica e “secolare”, la sua capacità di stare nel mondo per svolgervi un compito evangelico.
Molti dubitano che oggi una tale spiritualità possa essere riproposta a chi vive l’impegno politico. Eppure dal vangelo emerge un criterio d’azione che il credente può praticare anche in ambito politico. Lo si può formulare con una polarità apparentemente tautologica: portarsi dentro l’altro e portarsi l’altro dentro, cioè tentare di entrare in rapporto dialogico con un orizzonte valoriale e culturale diverso dal proprio e nondimeno dischiudere agli altri il proprio patrimonio di idee e di ideali. Sturzo, a mio parere, viveva questo tipo di attitudine evangelica, che è la stessa che veniva rilanciata nella Lettera a Diogneto, secondo cui non è lecito ai cristiani «disertare il posto che Dio ha loro assegnato» nella storia, dentro la città.
Sturzo visse quella sua passione civile interpretando laicamente ma non laicisticamente l’insegnamento di Gesù: «Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio». Come ha ben intuito Gustavo Zagrebelsky (in Scambiarsi la veste), questa frase non può essere considerata un manifesto della laicità moderna, pena il rischio di scivolare nell’anacronismo. Gesù non parlava ai politologi dei nostri giorni, ma ai teologi del suo tempo. I quali sapevano che solo Dio è Dio e Cesare è, semmai, solamente e semplicemente un cesare. Se le cose stanno così, allora la laicità intesa alla francese, come divaricazione tra fede e politica, non è l’ermeneutica più corretta della frase di Gesù. Che, difatti, crea un certo disagio al credente più che all’agnostico. È il disagio interiore che persino Sturzo provò quando, pur essendo prete, cominciò a occuparsi direttamente di politica e di amministrazione pubblica, facendo il pro-sindaco di Caltagirone dal 1905 al 1920. Non si trattò, per lui, semplicemente del disagio di non essere in regola con il non expedit pontificio, che vietava ai cattolici di fare politica nella nuova Italia unificata (per questo egli era non sindaco, ma pro-sindaco). Si trattò, per lui, di fare i conti con l’apparente inconciliabilità di due misure parimenti radicali, dotate entrambe del profilo alto della vocazione: da un lato esser “sacerdote” e perciò delegato a gestire il sacro (a mettersi in disparte, a fuggire dal mondo), d’altro lato esser “politico” e perciò deputato a gestire il mondo. In realtà, mentre andava vivendo quel suo interiore travaglio, Sturzo ripensava pure il rapporto — nella concretezza della sua stessa vicenda — tra spiritualità e politica, accorgendosi che esse sono due dimensioni differenti che però possono e debbono innestarsi a vicenda.
Questo crocevia tra vocazione alla santità e professione politica ci può apparire più chiaro se ricorriamo alla lingua tedesca. In tedesco — già a partire dalla traduzione che Lutero fece del termine paolino klḗsis (da kaléō, chiamare) — vocazione e professione sono due parole strettamente apparentate: Berufung (vocazione) e Beruf (professione, mestiere fatto ad arte). Sturzo ha testimoniato efficacemente che anche la professione politica — vissuta con competenza culturale e dirittura etica — può e anzi deve avere i connotati di una vera e propria vocazione.