Lo chiamavano Sorriso, il barbone di Roma morto a Villa Gordiani.

Per colpa di Caronte il clima è stato inclemente. Con i suoi raggi di brace non ha risparmiato chi ne è rimasto per forza esposto. Il barbone “Sorriso” ha pagato con la vita.

 

Giovanni Federico

 

È morto un barbone a Roma. Non sarà il primo e non sarà l’ultimo. Di solito il fatto fa più notizia sotto il Natale quando il senso di colpa di una società felice si ferma su una nota di giornale che macchia l’allegria di quei giorni.

 

È accaduto a Roma. L’uomo, da tutti chiamato “Sorriso”, è stato trovato su una panchina in zona Villa Gordiani da un passante. Chiamato così per via di una bocca senza denti a cui non era concesso neppure di masticare amaro per come gli erano andate male le cose della vita.

 

Aveva gioco forza un sorriso per tutti e ne strappava a quelli che lo guardavano. Quando si è a corto di dentatura non può essere altrimenti.

 

Chissà se è morto con il sorriso sulla bocca o alla fine ha perduto anche il suo tratto distintivo, il suo piccolo patrimonio. Comunque “Sorriso” ha avuto una sua coerenza, ostinato ad abitare quei paraggi. L’hanno trovato nella Villa che prende il nome dalla famiglia imperiale dei Gordiani del III secolo.

 

A ridosso del nobile edificio, negli anni 30 del secolo scorso fu costruita una borgata ufficiale ad un solo piano priva di luce e acqua corrente. Erano ad abitarla circa 5000 persone. Si trattava di costruzioni di materiali scadenti che non dovevano svettare e farsi vedere dal resto del mondo, restare nascoste agli occhi del fasto fascista, ma in ogni caso privilegiata rispetto alle borgate abusive che si erano sviluppate poi in altre parti della città. Del resto, “baraccati, sfrattati disoccupati, lavoratori saltuari, immigrati” da qualche parte dovevano pure andare.

 

Certi agglomerati desolati non passano indifferenti agli occhi dei poeti. Così Pasolini scrisse che “dietro alla borgata Gordiani, in una prateria dove si vedeva tutta la periferia con le borgate da Centocelle a Tiburtino, in fondo ad un orto zuppo di guazza, ci stavano dei grossi bidoni arruzzoniti, abbandonati lì insieme a altri ferrivecchi…”.

 

“Sorriso” aveva perso il lavoro e poi la casa che aveva in via Anagni. Ma al contrario di Bonifacio VIII non ha fatto più ritorno tra le sue mura domestiche. Il caldo di questi giorni che picchia a martello ci ha messo del suo.

 

“Ecco il sol che ritorna. Ecco sorride Per li poggi e le ville” commenterebbe Leopardi. Questa volta il sole ha superato se stesso facendo secco l’uomo steso su una panchina. Non poteva accadere che ha un panchinaro, uno di quelli condannati a fare sempre da riserva in attesa che la vita gli restituisse la vita che gli era stata sottratta.

 

La panca non è uno scranno regale come quello dei Gordiani, ma è un sedile dalle forme semplici e rustiche in piena coerenza con lo stile necessariamente scarno del nostro “Sorriso”.

 

Si dice “ Far ridere le panche” quando si proferiscono sciocchezze a sproposito. Il nostro uomo non ne aveva bisogno, capace di far muovere naturalmente un sorriso solo che lo si osservasse.

 

“Sopra la panca la capra campa” ma il nostro barbone ha sovvertito la tradizione del detto e ci ha lasciato la pelle. La temperatura portata in questo tempo da Caronte è stata inclemente, con i suoi raggi di brace non ha risparmiato chi ne è rimasto per forza esposto.

 

Solo una sottolineatura. Il Caronte dei Greci e dei Romani aveva il compito di traghettare oltre il fiume Acheronte le anime dei morti. Si era soliti ripagarlo per questo lavoro ponendo un obolo nella sua bocca.

 

Chissà se Sorriso abbia almeno avuto questa volta un po’ di fortuna e non gli sia stato negato un passaggio gratis.