Manzoni precursore del Risorgimento nel ricordo di Fanfani al Senato

Mercoledì 23 maggio 1973 l’Aula di Palazzo Madama commemorava Alessandro Manzoni in occasione del primo centenario della morte. In apertura dei lavori, il Presidente Fanfani pronunciava il discorso che qui riportiamo integralmente.

Amintore Fanfani

Il 22 maggio 1873 si spegneva a Milano Alessandro Manzoni. Il Senato, che lo annoverava da 13 anni tra i suoi membri, partecipò ai funerali, svoltisi con grande solennità il 29 dello stesso mese. Il 3 giugno il presidente Fardella di Torrearsa rievocò in Aula l’illustre scomparso. E, in esecuzione del voto unanime espresso in quel giorno, un busto di marmo fu posto poi in biblioteca, quasi a sottolineare il ricordo di un senatore insigne nelle lettere, ma schivo della politica. 

Ricorrendo in questi giorni il centesimo anniversario della morte di Manzoni, non poteva il Senato della Repubblica non partecipare al ricordo di Milano e dell’Italia, promuovendo sue proprie onoranze. 

Per Palazzo Madama, con l’assenso del Ministro per pubblica istruzione ed il consenso del Centro di studi manzoniani, della Biblioteca nazionale Braidense e del comune di Milano, si è ottenuto di poter collocare in una delle sale senatoriali un quadro del secolo scorso. In esso il pittore Giuseppe Molteni ritrae lo scrittore al centro di un noto paesaggio lariano, attribuito al pennello di Massimo d’Azeglio. Il pregio dell’opera è accresciuto, quindi, dalle circostanze che, a compirla, abbia dato mano lo statista-pittore che l’8 giugno 1860 fu invitato, insieme al collega Casati, ad introdurre in Aula il neo-senatore Alessandro Manzoni per prestare giuramento. 

Da una sala contigua a quest’Aula, meno riservata di quella della biblioteca, la pittorica effigie meglio ricorderà ai senatori un predecessore tra i più illustri, non solo per gli indiscussi meriti letterari, ma anche per certi meriti politici, attorno alla natura dei quali le polemiche, in verità, non sono del tutto sopite. 

E, rivolgendo, in quest’occasione, la parola agli onorevoli colleghi, non posso non prendere avvio proprio da ciò che disse il presidente Fardella di Torrearsa sottolineando che “la lunga intemerata vita di Alessandro Manzoni non fu spesa nell’adoperarsi attivamente nelle pubbliche faccende”. A ciò dire l’antico Presidente fu portato forse anche dal ricordo della rinunzia, fatta pervenire dal Manzoni agli elettori di Arona, quando lo avevano prescelto come deputato, allegando il motivo che tale lezione, per lui, suonava come l’invito rivolto ad “uno zoppo per una festa da ballo”.

Certo, la ritrosia del ‘48 ad accettare il mandato degli elettori, come la discrezione con la quale nel febbraio del 1860 accolse la nomina a senatore e la parca partecipazione alle sedute del Senato in tempi di accese lotte, che non lasciavano inosservata l’assenza da esse di  italiani ricchi di grandi doti e di distinta personalità, han dato risalto alla modesta presenza di Alessandro Manzoni nella vita politica.

Il problema, che sembrò senza importanza per chi decise la nomina di Manzoni a senatore per avere “con servizi  e meriti eminenti illustrato la Patria”, non sfuggì a quanti, a ciclo concluso di una esistenza certamente preclara, cercarono di spiegare di essa le luci e le ombre.

Appena morto il Manzoni, Giosuè Carducci esprimendo “alcuni giudizi“ su di lui, fondava il proprio invito a non presentarlo quale banditore e partecipe dei moti risorgimentali, sul silenzio che il poeta, dopo il ’21, aveva mantenuto verso la Patria; e quasi spiegava quel lamentato silenzio, e l’inerzia che lo accompagnò, con la morale – secondo lui – deducibile dai “Promessi Sposi”, quella cioè “che a pigliar parte alle sommosse l’uomo rischia di essere impiccato; e torna meglio a badare in pace alle cose sue facendo quel po’ di bene che si può”. Deduzione – questa – non certo elogiativa per il nostro commemorato, che però da se stesso, in certo modo, aveva anticipato simile spiegazione del suo restare appartato dall’azione, allorché il 7 ottobre 1848, da Lesa, aveva scritto a Giorgio Briano: “Tutto mi si fa dubbioso, oscuro, complicato, quando le parole possono condurre ad una deliberazione… il fattibile, le più volte non mi piace, e, dirò, anzi mi ripugna; e ciò che mi piace non solo parrebbe fuori di proposito e fuor di tempo agli altri, ma sgomenterebbe  me medesimo, quando si trattasse non di vagheggiarlo o di lodarlo semplicemente, ma di promuoverlo, e d’aver poi sulla coscienza una parte qualunque delle sue conseguenze”.

E aldilà di questa soggettiva spiegazione, Arturo Carlo Jemolo, proprio in opera nuova, di questi giorni, spiega la scarna presenza del Manzoni nella vita politica italiana col fatto che egli “sente la nazione, non lo Stato, non crede alla possibilità delle leggi, di amministrazioni buone, non vede dietro di sé tempi migliori da risuscitare, e ben poco spera dall’avvenire”.

Ai sottolineatori della riservatezza politica manzoniana un dotto membro della nostra Assemblea giustamente, tuttavia, ricorda – bene anticipando il sentimento diffuso oggi in quest’Aula – che accanto al Manzoni che “sta per conto suo”, c’è anche un Manzoni “che compie senza sacrificio, senza sforzo tutti gli atti necessari a congiungere la fede del credente con la dignità del cittadino; un Manzoni che non sbaglia nel ‘48, nell’adesione alle cinque giornate, che non sbaglia nel decennio della lunga snervante attesa, che non ha esitazioni o incertezze di fronte alla svolta del ‘59, che riceve dalle mani del Rattazzi, all’indomani di Villafranca, l’assegno Regio di riconoscenza, ma ringrazia Cavour;… un Manzoni che si reca a votare nel dicembre del 1864 a Torino per il trasferimento della capitale a Firenze, primo sicuro passo sulla via di Roma, resistendo a tutte le pressioni anche familiari;… di un Manzoni che plaude all’impresa garibaldina dei Mille, senza aspettare il corso degli eventi;… un Manzoni che non ha nessuna incertezza o esitazione, una volta compiuta la parabola dell’unità, a incontrarsi con Mazzini, asserendo che con Mazzini egli aveva avuto sempre fede nell’indipendenza d’Italia, compiuta e assicurata con l’unità”.

Né sembrino di poco conto questi atti, anche se confrontati con quelli dei massimi protagonisti del Risorgimento. Infatti, per l’ambiente in cui viveva Manzoni, essi risultarono tanto significativi da non risparmiargli contrarietà in vita e perduranti  critiche anche in morte, quando la sua memoria fu biasimata proprio per avere egli “detto troppi sì alla signora rivoluzione”.

L’aver pronunziato questi sì concorse a meritargli il laticlavio: ed anche il ricordo di questi si gli merita la celebrazione che a cent’anni dalla morte ne facciamo, sia per aver egli, con la sua non dimenticata opera di scrittore sommo, onorato le lettere in Patria e nel mondo, sia per avere egli con ferme decisioni, in momenti salienti, anticipato e stimolato la convinta adesione di ampia parte della popolazione italiana di profondo sentire cattolico allo sforzo lungimirante per superare storici steccati, per concorrere a prendere le decisioni capaci di consolidare l’unità raggiunta e, sulla base di essa, promuovere necessari progressi nel senso della libertà.

In questo spirito possiamo riallacciarci, dopo cent’anni, alla celebrazione che di Alessandro Manzoni fu fatta in quest’Aula dal Presidente d’allora, elogiando in Manzoni il sommo letterato, il precursore del Risorgimento, il cantore dell’unità nell’ora del periglio, il senatore che, col suo giuramento, confermava e rinnovava le sue libere aspirazioni, il vegliardo che, quasi nonagenario, a quanti circondavano il suo letto di morte rivolgeva “parole che è bello ripetere – così concluse il Fardella di Torrearsa –  anco  in quest’Aula: pregate così pure, come io ho fatto quotidianamente, per la Patria”.

Ed accogliendo, dopo cent’anni, questo invito, nelle nuove condizioni dell’Italia, non possiamo non proporci di mettere al sommo dei nostri pensieri e della nostra opera il fermo proposito di fare quello che da noi dipende, affinché l’Italia, delle conquiste sinora raggiunte sulla via dell’indipendenza, dell’unità, della libertà, faccia solida base per accrescere le altre cui attende di progresso, di giustizia, di pace.