Si racconta che una delle massime preferite di Mario Draghi sia attribuita a John Maynard Keynes: «Quando i fatti cambiano, io cambio opinione. E lei, Sir?». Da questa premessa prende spunto il volume della giovane giornalista, Cristina La Bella, “Mario Draghi. La speranza non è una strategia” (Santelli Editore). Non una biografia ufficiale, ma un viaggio attraverso le tappe fondamentali della sua vita. Un tentativo di mostrare l’uomo oltre l’economista, con le sue decisioni, i dubbi, i giudizi contrastanti che hanno accompagnato il suo impegno pubblico.
Gli anni della formazione
Draghi frequenta a Roma il liceo dei Gesuiti e si laurea alla Sapienza nel 1970, sotto la guida esperta di Federico Caffè. La sua tesi di laurea “Integrazione economica e variazione dei tassi di cambio” è di impostazione Keynesiana, critica del cosiddetto “Piano Werner”, in cui si sottolinea l’importanza dello Stato come regolatore dell’economia, accanto al ruolo del mercato.
Gli anni di insegnamento universitario, in città come Trento e Firenze, lo vedono professore severo, esigente, ma anche capace di introdurre gli studenti al pensiero economico “internazionalista”. La parentesi al MIT di Boston, a contatto con i giganti della disciplina come Franco Modigliani, Robert Solow e Stanley Fischer, lo apre ad una prospettiva globale. È un Draghi diverso da quello che l’opinione pubblica ha conosciuto: giovane docente curioso, aperto al dialogo e al confronto.
L’avventura al Tesoro
La svolta arriva nel 1991 quando Guido Carli, d’intesa con il governatore Ciampi, lo chiama come direttore generale al Ministero del Tesoro. È l’inizio di un decennio decisivo per la politica economica italiana. Draghi guida le privatizzazioni delle grandi aziende pubbliche (IRI, Telecom e altre), scelte “necessarie” secondo i sostenitori, per modernizzare l’economia, errori “imperdonabili” secondo i critici, che parlano apertamente di “svendita del Paese” ai cosiddetti “poteri forti”. Come ricorda l’autrice, nel 1992 sul panfilo Britannia, Draghi tiene un discorso “tecnico e prudente”. Ma quell’episodio diventa il simbolo, per i suoi detrattori, di una resa (incondizionata?) ai poteri finanziari internazionali. Secondo le stime, la vendita di aziende pubbliche, gestita dal comitato di privatizzazione, tra il 1993 e il 2001 ha portato nelle casse dello Stato l’equivalente di circa 102 miliardi di euro.
L’esperienza in Goldman Sachs
Nel 2002, Draghi torna per un breve periodo a insegnare ad Harvard, prima di essere nominato vicepresidente europeo di Goldman Sachs. La decisione alimenta un pregiudizio che lo accompagnerà a lungo: essere un uomo legato (a doppio filo?) agli interessi delle grandi banche internazionali. Il presidente emerito della Repubblica, Francesco Cossiga, non esita a definirlo un “vile affarista”. In realtà la permanenza di Draghi in Goldman Sachs dura solo tre anni, prima del ritorno in Italia. È uno dei nodi etici che il volume affronta: come pesare l’esperienza in un colosso finanziario globale rispetto al successivo ruolo di garante dell’interesse pubblico?
La Banca d’Italia
Nel 2005, dopo il “caso Fazio”, Draghi viene nominato governatore della Banca d’Italia. È un’istituzione ferita, bisognosa di riconquistare fiducia. Il neo governatore si muove con risolutezza: rafforza i controlli, impone regole più severe sulla vigilanza bancaria, restituisce sobrietà all’istituzione. Ai dipendenti di Bankitalia, fa recapitare una lettera in cui invita a ritrovare l’orgoglio perduto. La Banca d’Italia, scrive Draghi ai dipendenti, «ha le risorse necessarie per affermare la propria autorevolezza nella formazione della politica monetaria europea e per meritare quel prestigio internazionale che la sua storia le ascrive». In quella stessa missiva, raccomanda ai suoi collaboratori di «avere il coraggio di cambiare». Ecco, «coraggio» è una delle parole più ricorrenti nel libro. Lo stesso Draghi, come ricorda l’autrice, ha un aneddoto al riguardo: «A cavallo tra le due guerre, in Germania, mio padre vide un’iscrizione su un monumento. C’era scritto: se hai perso il denaro non hai perso niente, perché con un buon affare lo puoi recuperare; se hai perso l’onore, hai perso molto, ma con un atto eroico lo potrai riavere; ma se hai perso il coraggio, hai perso tutto».
La BCE e il “Whatever it takes”
Il 2011 lo porta alla guida della Banca centrale europea. È il momento più drammatico per l’Eurozona: la crisi greca, lo spread italiano alle stelle, i mercati che scommettono apertamente contro la moneta unica. Il 26 luglio 2012, a Londra, pronuncia parole che diventano storia: “noi ci impegniamo a difendere l’Euro a qualunque costo”. Whatever it takes. Tale politica si concretizza nell’adozione di tassi d’interesse bassi o negativi e, superata la crisi dell’Euro, anche nell’utilizzo del “quantitative easing” cioè l’acquisto di titoli pubblici sovrani da parte della BCE, per agevolare la ripresa nell’Eurozona. Anche in questo caso, non mancano critiche: l’allora presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, accusa il governatore di spingersi oltre il mandato; nei Paesi sotto tutela della BCE, infatti, l’austerità imposta in cambio della stabilità monetaria lascia in eredità cicatrici profonde.
L’avventura a Palazzo Chigi
Nel febbraio 2021, in piena pandemia, il presidente Mattarella lo chiama a guidare un governo di unità nazionale. Draghi consegna al Paese un PNRR credibile, sostanzialmente riscritto rispetto al Recovery plan proposto dall’esecutivo Conte II. Sul piano internazionale, Draghi prende una posizione netta contro l’invasione russa dell’Ucraina, schierandosi con decisione al fianco di UE e Stati Uniti. Ancora una volta, il suo stile è quello del tecnico prestato alla politica: sobrio, diretto, privo di concessioni alla propaganda. Ma anche qui le critiche non tardano ad arrivare: c’è chi lo accusa di eccessiva fedeltà a Bruxelles, chi di fare gli interessi dell’America di Biden, chi di aver ignorato le fratture sociali interne.
Il “rapporto Draghi” e il futuro
Oggi, Mario Draghi è ancora al centro della scena politica europea. La presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, gli ha affidato la redazione di un rapporto sulla competitività dell’Unione. Anche qui riemerge il “doppio registro” che attraversa tutta la sua biografia: da un lato il tecnico che si muove con autorevolezza, dall’altro l’outsider che deve misurarsi con scelte cariche di conseguenze politiche e sociali.
Il “rapporto Draghi” individua tre priorità decisive per il futuro dell’UE: innovazione tecnologica, decarbonizzazione e sicurezza economica. Il sentiero indicato è un percorso che «infrangerà tabù di lunga data. Ma il resto del mondo ha già infranto i propri. Per la sopravvivenza dell’Europa, dobbiamo fare ciò che non è mai stato fatto prima e rifiutarci di lasciarci frenare da limiti autoimposti», come ha dichiarato l’ex presidente della Bce in sede di presentazione del Rapporto. In quella stessa occasione, Draghi ha sottolineato come «l’Europa si trovi oggi in una situazione più difficile», con un modello di crescita che «si sta dissolvendo» e «vulnerabilità in aumento». La sua conclusione è netta: «L’inazione minaccia non solo la nostra competitività, ma anche la nostra stessa sovranità». E la visione di Draghi, a giudizio di chi scrive, convince per credibilità e autorevolezza.
Per saperne di più
Cristina La Bella, giornalista pubblicista, originaria di Frosinone, è laureata alla Sapienza di Roma in Lettere e Filologia Moderna. Il libro “Mario Draghi: la speranza non è una strategia. Biografia dell’uomo e dell’economista”, Agorà Santelli, 2025, è la sua opera prima.

