Meda contro D’Annunzio: un guaio l’occupazione di Fiume. Rossi (Rai) ne tenga conto.

Affermazioni a dir poco superficiali - “Un cartoon su D’Annunzio sarebbe molto divertente” - quelle che ieri il Direttore generale della Rai ha pronunciato con riferimento alla sciagurata impresa di Fiume.

Filippo Meda, figura eminente del cattolicesimo politico negli anni del pre-fascismo, ministro più volte e in particolare con Giolitti al Ministero del Tesoro, in uno dei primi numeri della rivista “Civitas”, da lui fondata (dicembre 2019) e diretta, denunciava il carattere avventuroso dell’occupazione di Fiume ad opera del Vate e dei suoi legionari. 

L’articolo, qui riproposto integralmente, affrontava in generale i problemi politici del Paese a pochi mesi di distanza dalle prime elezioni a suffragio universale (donne escluse), svoltesi per altro con il sistema elettorale proporzionale. L’attacco a Gabriele D’Annunzio rifletteva, del resto, l’opinione dell’intero gruppo dirigente del Partito popolare, in primis del segretario Luigi Sturzo. Questi dirà più tardi che l’occupazione di Fiume rappresentò l’avvio di un processo di disgregazione da cui sarebbe scaturita la reazione del fascismo, e poi la sua conquista del potere.

Ora, se il direttore Rossi non avverte l’esigenza di un contegno scevro da pericolosi ammiccamenti a vicende storiche controverse – vedi appunto l’occupazione di Fiume – vuol dire che la Rai è considerata solo la pedana per esercizi ginnico-politici di dubbia qualità. E questo non è accettabile. [L. D.]

 

L’attesa

Filippo Meda

Il breve periodo di lavori parlamentari, che abbiamo avuto in questa prima metà di febbraio, non è stato che una preparazione al nuovo viaggio del l’on. Nitti, il quale come il suo predecessore on. Orlando, s’avvia per il doloroso calvario delle gite a Parigi ed a Londra, dove purtroppo non è destinato anche lui a raccogliere altro che amarezze e sconforti: perché al punto in cui siamo ogni illusione dovrebbe essere caduta: i nostri alleati, finita la guerra, sono rientrati – e forse, vogliamo essere oltreché onesti generosi, per necessità – nel loro sacro egoismo; e per quel che attiene all’Italia la loro preoccupazione si riduce al salvare le apparenze.

Bisogna aggiungere per la verità che in Italia non si è tralasciato nulla di quel che potesse concorrere a questa nostra svalorizzazione: il fenomeno fiumano non si può immaginare quanto ci abbia danneggiato e ci danneggi; noi non ne abbiamo mai parlato, e non ne parleremo di proposito neppure oggi; ma chiunque ha due dita di criterio capisce senza bisogno di commenti la penosa situazione che la follia di Gabriele D’Annunzio e dei suoi cosiddetti legionari ha creato al Governo nazionale; e temiamo che i guai del gesto o delle gesta, che dir si voglia, non cesseranno così presto.

Ma sarebbe lecito non preoccuparcene troppo se non avessimo avuto e non avessimo contemporaneamente in paese l’azione dei partiti, e specialmente del partito socialista ufficiale, intesa a togliere qualsiasi timore di resistenza nazionale che gli alleati potessero nutrire nei riguardi dell’Italia: essi sanno che cessate le ostilità, qui si è giocato a chi più corresse alla rappresaglia; hanno visto le elezioni generali riuscire con aperto significato – perché tacerlo? – di sconfessione della guerra; ci ammirano nel nostro quasi disprezzo della vittoria conseguita: sanno che potremmo essere, ma non siamo e non saremmo, il paese in cui se si volesse, sarebbe più facile e più pronta che in qualunque altro la rinascita, e che la maggiore somma delle difficoltà in cui ci dibattiamo sono tali che potrebbero essere superate, sol che si parlasse meno di scioperi e di rivoluzione, e si lavorasse qualche ora di più, o con ritmo un po’ meno svogliato, e si sciupasse meno nei consumi non necessari: sanno tutto questo, diciamo, e ne concludono che l’Italia, a qualunque umiliazione il sinedrio delle Potenze volesse condannarla, finirebbe col rassegnarsi.

Non ci si fraintenda, siamo ben lungi noi dal vagheggiare riprese nazionaliste; anzi mettiamo in conto della nostra scemata autorità internazionale ugualmente le minacce di dittature militari e quelle di dittature proletarie: ma non possiamo realisticamente negare ciò che vedono anche i ciechi; vale a dire la mancanza di una coscienza e di una resistenza patriottica abbastanza diffusa per potere affidare e sorreggere qualsiasi Governo nella sua doverosa azione di tutela degli interessi italiani di fronte all’estero.

Ignoriamo se in questa condizione di cose sia da sperarsi che l’on. Nitti riporti da Londra la soluzione almeno della questione adriatica; noi lo auguriamo, perché ormai in paese è troppa la gente che non vuole più attendere e che reclama una fine qualsiasi, purché sia una fine; e tra questa gente non ci sono soltanto a voler essere sinceri i rinunciatari per partito preso ed i disfattisti, che vagheggiano la peggior ventura per aver modo di consolarsi dentro sè stessi, e fuori; colla constatazione che la guerra non ha servito a niente (costoro vedrebbero volentieri pur di procurarsi questo gaudio, magari anche la perdita di Trento e di Trieste); no; ci sono anche parecchie persone equilibrate, di patriottismo né timido né equivoco, le quali però sono tormentate dal dubbio che ogni ulteriore attesa non sia che per il peggio, non ci prepari cioè se non risultati sempre meno vantaggiosi e dignitosi: dubbio che noi non siamo alieni dal ritenere troppo fondato.

L’augurio che l’on. Nitti rientri a Roma, col bagaglio delle difficoltà estere alleggerito, ha poi la sua ragion d’essere in un’altra considerazione: il primo ministro avrà infatti bisogno di pensare con maggiore libertà alla situazione interna e più specificatamente alla situazione parlamentare.

Noi siamo sempre dell’opinione che l’on. Nitti non possa in questo momento lasciare il timone dello Stato, specie perché non è sull’orizzonte chi sia in grado hic et nunc di sostituirlo o sia disposto per ora a sobbarcarsi; ma riconosciamo che molti pezzi della sua barca sono logori, e che egli non può essere obbligato a navigare se non gli si dia il mezzo di farlo con qualche maggior sicurezza e tranquillità.

Ond’è che al suo ritorno, forse prima che il Parlamento si riapra, tutti i gruppi della Camera – escluso il socialista ufficiale sul quale non c’è da fare alcun assegnamento – saranno costretti a scegliere tra queste due vie: o collaborare alla ricomposizione del ministero ed impegnarsi a sostenerlo con una certa continuità e stabilità, o prepararsi a prossime elezioni generali.

Il quesito si affaccerà con particolari caratteri di gravità al Partito popolare, senza di cui nessun Gabinetto può vivere, a meno che non sia l’invano da taluni auspicato Gabinetto liberale-socialista: i deputati del gruppo popolare non possono più gingillarsi a discutere alla vigilia di ogni voto se debbano rispondere sì o no; occorrerà che esaminino il problema nei suoi termini quasi diremo fatali: si ha da mantenere in vita la Camera attuale e farla funzionare? Ove si risponda negativamente, nulla di più semplice: il gruppo passa all’opposizione e lo scioglimento è inevitabile. Ove si risponda invece affermativamente (e a noi pare che non si possa fare a meno, per la considerazione che nuove elezioni generali riprodurrebbero la situazione attuale, forse peggiorata, ma non darebbero ancora la prevalenza assoluta ai socialisti così da costringerli ad assumere le responsabilità positive) le vie da prendere sono due: o contribuire a comporre stabilmente la maggioranza senza partecipare al ministero, esigendo solo quella parte di garanzie programmatiche che le contingenze permettono di ottenere; o dare alcuni uomini come collaboratori all’on. Nitti: la seconda via è più logica, ma la prima è più comoda; e diciamo comodità non nel senso volgare della parola, bensì in senso puramente realistico: resta solo a sapersi se vi si acconcerebbero gli altri gruppi della maggioranza e lo stesso suo capo, cioè l’on. Nitti.

Comunque si decida, quel che importa è che il Partito popolare nella sua rappresentanza parlamentare – e di riflesso nelle sue organizzazioni fuori del Parlamento – senta e comprenda le sue responsabilità e le sappia affrontare con virile dignità, ponendo fine allo stato di incertezza in cui si è finora dibattuto: è stato detto che è una sventura il trovarsi troppo presto sulle spalle il peso delle cose serie, il dover contenersi troppo presto da uomini, perdendo così la letizia di un po’ di giovinezza spensierata; di quella spensieratezza che in politica consiste nello sport della critica e della opposizione, il quale, fra l’altro, piace tanto agli spettatori e procura una larga messe di applausi: ed è verissimo: ma allora bisognava non riuscire in cento e accontentarsi di andare a Montecitorio in una cinquantina: né noi cerchiamo se oggettivamente sarebbe stato desiderabile un successo elettorale notevolmente minore; perché sarebbe ricerca inutile di fronte ad una realtà che è quel che è, e non si muta per quante ipotesi si facciano intorno ad una realtà diversa che fosse stata preferibile: prendiamo le cose come sono e ne tiriamo le conseguenze.

Del resto, à la guerre comme à la guerre.

 

Civitas

(N. 5, 16 febbraio 1920. Titolo dell’articolo: Attesa).